Pubblichiamo l’articolo di Gian Paolo Serino uscito il 26 febbraio su Vanity Fair.
Dopo Stoner, romanzo diventato di culto, John Williams ho scritto un libro più cupo. Che ci fa una domanda
Per Bret Easton Ellis è «uno dei più importanti romanzi del XX secolo», mentre per Ian McEwan «tocca la verità solo come la grande letteratura»: giudizi che anche in Italia sono condivisi dalle migliaia di lettori che negli ultimi mesi hanno scoperto Stoner di John Williams. Pubblicato da Fazi nel 2012, grazie al passaparola, è diventato un libro di culto, come da anni non se ne leggevano.
Bisogna forse tornare a Una banda di idioti di John K. Toole (Marcos y Marcos) e al Richard Yates Revolutionary Road (minimum fax) per riscoprire un caso letterario di tale successo. Stoner, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1965, è stato a lungo dimenticato. Soltanto grazie all’edizione italiana è tornato a essere un caso editoriale mondiale.
Dall’Italia è arrivato a essere uno dei libri più letti in Francia, Germania, Olanda, Israele, facendosi riscoprire anche dagli americani. Stoner è davvero un capolavoro: perché riconcilia non solo con la lettura, ma anche con la vita. Più che un libro è un piccolo miracolo. Perché è uno di quei rarissimi casi in cui si finisce un libro e se ne esce migliori. Un romanzo che ha per protagonista un docente universitario, un uomo nato agli albori del Novecento nella profonda provincia del Missouri, che si ribellò in silenzio, che finirà vilipeso da tutti, moglie e figlia comprese, ma che sul letto di morte si ritrova felice perché era quella la vita che voleva: un’esistenza fatta di scelte spesso difficili, ma sempre coerenti.
Sullo scia del successo di Stoner, lo scorso anno Fazi ha pubblicato Butcher’s Crossing, romanzo forse di difficile comprensione per i lettori italiani (quasi un western, ma che rovescia il mito della frontiera): dal libro è in lavorazione un film diretto da Sam Mendes con la sceneggiatura di Joe Penhall.
Adesso, sempre per Fazi è in uscito Nulla, solo la notte scritto tra il 1942 e il 1945, da un Williams appena ventenne, non deluderà i tanti cultori di Stoner. Il romanzo vede protagonista Arthur Maxley, un giovane dandy dell’alta borghesia sulle strade perdute della California: e se alla prima lettura ricorda John Fante, addentrandoci nel romanzo ci accorgiamo di come, in realtà, Williams abbia una voce narrativa che anticipa molti degli scrittori che negli anni Cinquanta e Sessanta animeranno la letteratura «on the road».
Certo, questo Williams appare più cupo e malinconico rispetto a Stoner, ma la sua visione è di un autore da una parte ancora acerbo e dall’altra ancora fortemente scosso dalla guerra e forse disilluso da una realtà sociale che gli appare come «un deserto di cemento insensato». Tra Il grande Gatsby e Dorian Gray, Arthur Maxley «ha fame di un’immagine che non fosse incorniciata da uno specchio, di un volto alieno che lo guardasse negli occhi scintillando di luce propria, di una voce che trafiggesse la solitudine che lo imprigionava».
Un romanzo di una modernità sconcertante, perché intuisce come il nostro precariato più che lavorativo sia esistenziale.