Intervista a Stefano Tummolini, traduttore di John Williams

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Pubblichiamo in esclusiva per il nostro blog l’intervista a Stefano Tummolini, traduttore dei libri di John Williams: Stoner, Butcher’s Crossing e Nulla, solo la notte

 

Dopo aver tradotto Stoner e Butcher’s Crossing, i lavori più maturi di John Williams, ti sei confrontato con l’esordio Nulla, solo la notte, che precede gli altri romanzi di più di dieci anni: quale evoluzione hai notato nella scrittura dell’autore?

In Nulla, solo la notte la scrittura è ancora un po’ manierata, la forma tende a prevalere sul contenuto e può risultare faticosa – forse per l’esigenza del giovane Williams di essere all’altezza dei suoi modelli letterari. Allo stesso tempo, però, alcune delle sue speciali qualità sono già evidenti: in particolare, la precisione lessicale e sintattica con cui descrive i pensieri, le emozioni e le sensazioni fisiche del protagonista – per giunta senza mai ricorrere alla prima persona. In più il personaggio principale, Arthur Maxley, somiglia molto sia a Will Andrews, il protagonista di Butcher’s Crossing, che a William Stoner: è un eroe  “alienato”, vittima di una sensibilità fuori dall’ordinario e di una forte tendenza alla speculazione, che spesso si lascia assorbire dal suo mondo interiore fino ad estraniarsi dalla realtà.

Hai avuto particolari difficoltà nella traduzione di questo libro?

Le prime pagine, che a mio giudizio sono anche le più belle di tutto il romanzo, sono state forse le più difficili, perché sono ricche di sfumature ed hanno un ritmo molto particolare. Sono filosofiche e psicologiche allo stesso tempo e trasportano il lettore, senza soluzione di continuità, da un inizio lento e  astratto, quasi speculativo, ad una dimensione completamente onirica, densa di sensazioni anche fisiche, che si fa sempre più inquietante fino a culminare in un parossismo d’angoscia. È stato impegnativo rendere non solo l’andamento sintattico, ma anche il tempo della narrazione: il simple past del testo originale, infatti, a volte corrispondeva al nostro passato remoto, altre volte all’imperfetto.

Cosa ti ha colpito maggiormente di Nulla, solo la notte?

Oltre all’inizio, direi certe descrizioni degli ambienti – che sembrano dei veri e propri quadri espressionisti. Penso in particolare alla sala da ballo, quando Arthur Maxley paragona le persone che lo circondano a dei “fantocci manipolati da mani occulte”, che ha l’impressione, concentrandosi, di poter rallentare e fermare, per osservarne ogni singola posizione. Sotto i suoi occhi, i danzatori sembrano contorcersi, curvarsi, scattare e bloccarsi ad ogni variazione della musica. La descrizione, poi, diventa quasi cinematografica, quando Williams scrive: “Spostò la messa a fuoco dello sguardo e lasciò che l’azione accelerasse, recuperando la velocità normale”. Mi ha fatto pensare non solo a certi quadri di Munch o Ensor, ma anche ad alcuni effetti speciali impiegati nel cinema contemporaneo – come il Bullet time, in cui la mdp gira a velocità normale attorno ad un oggetto, che invece sembra congelato nel tempo. In più ho trovato belli i dialoghi, molto realistici e assolutamente all’altezza di quelli dei romanzi successivi. Fantastico, sempre nella sala da ballo, quello tra Arthur e Claire, entrambi sbronzi. E le pagine in cui il protagonista ricorda la sua infanzia dorata, e il rapporto esclusivo con la madre, sono strazianti.

Tra i tre romanzi di John Williams che hai tradotto qual è il tuo preferito?

Stoner resta il mio grande amore, anche se le descrizioni della natura presenti in Butcher’s Crossing sono potentissime. E nessun western, prima e dopo Williams, ha mai restituito con altrettanta verosimiglianza la sete e la fatica di cavalcare.

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Quali sono le tue tempistiche e la tua metodologia nella traduzione?

All’inizio traducevo all’impronta, senza leggere il romanzo per intero. Lo facevo per mantenere il gusto della scoperta. Poi però ho capito che è un sistema troppo faticoso, perché ti costringe a rivedere continuamente il lavoro che hai fatto. Ora in genere prima leggo tutto il romanzo, o quasi, appuntando qualche parola ricorrente o le frasi particolarmente “rognose” – su cui prevedo che dovrò perdere del tempo. Credo sia più scaramantico che pratico, in realtà. Di solito riesco a tradurre tra le quattro e le cinque pagine al giorno, ma ovviamente dipende dai testi.

Come ti rapporti con la redazione durante la fase di revisione del tuo lavoro? Consideri importante questa fase?

Il lavoro del correttore di bozze è molto importante, perché il suo è uno sguardo esterno e distaccato. È vero che il traduttore in genere rilegge sempre tutto, anche più di una volta, prima di consegnare: ma è difficile essere obiettivi, quando ci si è rimasti dentro a un libro per mesi, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina. Oltre ad intervenire sulle sviste e i refusi – e le cantonate, che a volte capitano – il correttore ha la possibilità di uniformare ed equilibrare la traduzione nel suo insieme, un po’ come fa l’editor con un romanzo.

Cosa consiglieresti a chi vuole intraprendere la professione di traduttore? Quali sono i segreti del mestiere?

Quello del traduttore è un mestiere ingrato. Non parlo solo dei compensi – che in genere, soprattutto per le traduzioni letterarie, sono modesti. È anche poco riconosciuto, e ti mantiene nell’ombra. Perché una delle principali qualità del traduttore è proprio quella di sapersi annullare: cioè di farsi attraversare dal testo, e di restituirlo nella sua verità più profonda, senza togliere né aggiungere niente. Il talento di un traduttore, secondo me, sta soprattutto nell’attenzione che dedica alla comprensione del testo e nella precisione con cui – mutatis mutandis – lo trasferisce nella propria lingua. È un lavoro che richiede molta dedizione e pazienza, e spesso – anche se può sembrare un paradosso – anche una certa inventiva. È faticoso, a volte frustrante. Allo stesso tempo, però, l’intimità che si raggiunge con l’autore è qualcosa di prezioso e speciale. E quando si tratta di un grande scrittore, come Williams, è un vero e proprio privilegio.

Stefano Tummolini (Roma, 1969) è laureato in storia e critica del cinema presso l’Università La Sapienza di Roma e lavora come scrittore, traduttore e film-maker indipendente. Ha collaborato alla sceneggiatura di alcune serie tv (Distretto di polizia, Il bello delle donne, Tutti pazzi per amore) e film per il grande schermo, tra cui Il bagno turco di Ferzan Ozpetek. Ha realizzato vari cortometraggi, tra cui Il tuffatore (1997) e L’orizzonte (2001) presentati al Torino Film Festival e Prova d’attrice (1999) presentato alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. È autore di una monografia su Neil Jordan (Dino Audino Editore, 1996) e di un saggio sul melodramma cinematografico (Lo specchio della vita, Lindau, 1999). Ha tradotto testi di autori classici e contemporanei dall’inglese e dallo spagnolo (tra cui Thomas Hardy, Miguel de Unamuno, Gore Vidal, Guillermo Arriaga, John Edward Williams) e ha collaborato come docente di scrittura cinematografica con la Scuola Holden di Torino. Nel 2005, due suoi racconti sono stati pubblicati nella raccolta Men on Men 4 (Oscar Mondadori) e nel 2008 è uscito il suo primo romanzo, La guerra dei sessi (Liberamente Editore). Un altro pianeta, il suo primo lungometraggio, è stato presentato alla 65° Mostra del Cinema di Venezia (sezione “Giornate degli autori”, premio “Queer Lion”) e al Sundance Film Festival (sezione “World drama”). Nel 2009 è stato candidato al Nastro d’argento come miglior regista esordiente.

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