Pubblichiamo l’articolo di Matteo Nucci apparso il primo novembre 2013 sul Venerdì di Repubblica.
Esattamente quarant’anni fa, quando fu premiato con il National Book Award per Augustus, John Williams reagì con misurata soddisfazione. I colleghi più stretti, che pure ne conoscevano bene l’understatement, raccontano di essere rimasti stupiti. Dopo tre romanzi di scarsissimo successo commerciale, benché fosse idolatrato dagli studenti di scrittura creativa e ammirato da scrittori raffinati, Williams non sembrava tradire alcun tipo di emozione: sosteneva che non avrebbe fatto alcuna differenza se il libro avrebbe raggiunto mille o centomila lettori. Chi ammirava in lui la capacità di rendere cristalline anche le storie più oscure pensò fosse il vezzo della superstizione. Augustus meritava il premio. L’ascesa al potere di Ottaviano, nonostante in moltissimi già si fossero cimentati con la celebre storia, veniva ripercorsa con il piglio del grande narratore. Mescolati con accortezza, documenti, epistolari e racconti erano a volte ispirati direttamente da Cicerone o Tito Livio, a volte invece totalmente inventati, come alcuni personaggi chiave. “Se in questo lavoro sono presenti delle verità, sono le verità della narrativa più che della Storia”. Il libro scorreva come un fiume limpido che porta con sé i detriti delle innumerevoli regioni percorse.
Pochi mesi più tardi però le parole accorte di Williams risuonarono in un’eco di saggia preveggenza. Neppure quel coro polifonico di voci che trascorrevano nei decenni più appassionanti di storia romana riuscì a cogliere il successo. Le librerie mandarono indietro le rese e Williams si limitò a un sorriso ironico. Solo i pochi che avevano accesso al lato più oscuro dell’uomo, quello che si liberava nelle notti di ubriachezza in una violenza sardonica a volte imbarazzante, ebbero la possibilità di immaginare quanto lo scrittore fosse deluso. Poterono soltanto immaginarlo, d’altronde, perché anche nella più assoluta libertà dai freni dell’autocontrollo, Williams evitò sempre di parlare dei propri sogni letterari, così come aveva sempre evitato di parlare della guerra.
Eppure è forse proprio l’esperienza della guerra che può spiegare la grandezza di questo autore nato a Clarksville, Texas, nel 1922 e cresciuto, come autore e professore, a Denver. Perché nei tre straordinari romanzi che sono tornati prepotentemente alla ribalta, aldilà delle enormi differenze di ambientazione, personaggi e linee narrative, quel che segna una sorta di filo rosso di poetica è la tensione esplosiva che alimenta i rapporti fra gli uomini, assieme alla capacità di quegli uomini di sentire una specie di inumana fratellanza nel confronto che va oltre se stessi e li mette di fronte al destino e alla natura. “La guerra lo perseguitò fino alla fine” ha raccontato la sua quarta e ultima moglie, Nancy. Sensi di colpa per essere sopravvissuto agli amici, incapacità di dimenticare le vette di solidarietà conquistate in circostanze estreme, intolleranza verso le meschinità della vita quotidiana.
Tutto questo scorre nei sotterranei di Augustus (Castelvecchi), Butcher’s Crossing (Fazi) e Stoner (Fazi), unendo mondi apparentemente lontani: la Roma antica di Ottaviano Augusto; il selvaggio West in cui un giovane ragazzo di Boston si lancia a esplorare l’immensità della natura; le chiuse stanze universitarie in cui un figlio dei campi si trova ad affrontare le asperità della carriera accademica. Vite segnate da amicizie tradite e rimpiante, amori persi, sconfitte da digerire, rincorse contro un destino che regolarmente ha la meglio su chi tenta di opporglisi.
In guerra, tra India e Birmania, Williams era andato volontario, nel 1942. Lettore vorace, figlio di contadini, aveva lavorato in una radio e si era precipitosamente sposato, ma già sul fronte aveva ricevuto la lettera che chiedeva il divorzio. Tre anni a sfuggire la morte in una guerra che – si limitò a dire – “ha brutalizzato le menti di tutti noi, ormai abituati a vedere gli amici cadere”, nel ’45 Williams tornò alla vita civile, con un manoscritto a cui aveva dedicato il tempo libero e che gli fu accettato dopo innumerevoli rifiuti da un piccolo editore di Denver. Nulla, solo la notte fu il primo insuccesso, ma spinse Williams a Denver, dove riprese gli studi, si sposò e divorziò ancora e dove tornò, dopo un dottorato in Missouri, a insegnare scrittura creativa – quel che avrebbe fatto per tutta la vita. Nuovamente sposato (stavolta il matrimonio sarebbe durato fino agli anni Sessanta e gli avrebbe dato tre figli), Williams si gettò alla scoperta della ricchezza nascosta nell’isolato Colorado: storie di uomini che si confrontavano con una natura estrema in cui sembrava incarnarsi una sorta di destino, storie che cinema e libri avevano riproposto in termini stereotipati, edulcorati e romantici. Il risultato fu un’opera originale e potentissima. Molto prima di McCarthy, Peckinpah e Altman, l’antiwestern usciva dalle mani di Williams fradicio dell’eredità di Melville. Butcher’s Crossing è un libro meraviglioso, in cui pagine e pagine dettagliatissime come un nuovo Moby Dick ci raccontano dei bisonti e delle loro pelli, di uomini insaziabili, divorati da un sogno, incapaci di fermarsi di fronte alla sfida alla morte.
L’insuccesso commerciale non fermò Williams. Chi gli propose di ristampare il libro in tascabile con l’urlo del western si vide recapitare un drastico rifiuto. L’insegnamento intanto richiedeva sempre più tempo e l’università divenne il luogo da cui sarebbe scaturito quello che oggi viene considerato, da autori e critici, il suo capolavoro:Stoner. L’attenzione maniacale al linguaggio e la repulsione verso i sentimentalismi crearono nella figura di Stoner l’umile professore dedito a studenti e letteratura: un antieroe pronto a diventare culto per pochi, prima del postumo successo. Seguirono gli studi per Augustus, il National Book Award, eppoi una diagnosi di enfisema. Fu allora che Williams cominciò a lavorare al libro che non avrebbe mai visto la luce. Sempre estraneo a qualsiasi forma di autoindulgenza, la bombola di ossigeno in una mano, la sigaretta nell’altra, continuò a insegnare fino al 1985 e tentò di scrivere fino a quando ne ebbe voglia. Ci restano pagine in cui ritroviamo la prosa limpida e feroce. Ci resta il titolo: The Sleep of Reason. Ci resta l’argomento: la guerra. E forse lì sta il segreto dell’incompiutezza. Williams morì in seguito a una crisi respiratoria il 3 marzo del 1994.