Tradurre «Stoner» di John Williams

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Stoner

In occasione dell’uscita dell’edizione economica di Stoner, abbiamo chiesto a Stefano Tummolini di raccontarci la sua esperienza con la traduzione del romanzo di John Williams.

 

È difficile scrivere qualcosa d’interessante su un libro come Stoner, di cui da dieci anni si continua a parlare – forse troppo. Non dico certo che non meriti il grande successo che ha avuto, e che un poco ha inorgoglito anche me: ma come spesso avviene con i “casi” letterari, lodarlo è diventato d’obbligo, e forse questo avrebbe imbarazzato Williams, che ho sempre immaginato schivo e modesto come il suo eroe. Tutti ricorderanno l’inizio del romanzo, quindi lo citerò in inglese:

Stoner’s colleagues, who held him in no particular esteem when he was alive, speak of him rarely now; to the older ones his name is a reminder of the end that awaits them all, and to the younger ones it is merely a sound that evokes no sense of the past and no identity with which they can associate themselves in their careers.

Oblio, trascuratezza, indifferenza. L’intenzione di descrivere un “signor nessuno” è dichiarata fin dall’inizio. Eppure di quell’anonimo assistant professor (che io tradussi, forse impropriamente, ricercatore) Williams è riuscito a fare un monumento.

La storia, ormai, la sanno tutti. Figlio di contadini, da cui ha ereditato “dignità e gentilezza” e “una forza muta e paziente” (John McGahern) Stoner si iscrive all’università del Missouri nel 1910, per studiare agraria: lì scopre la letteratura inglese e ne resta così affascinato e turbato da cambiare corso, dedicandosi allo studio e all’insegnamento. La sua vita è in apparenza grigia come la sua carriera: un matrimonio infelice, una relazione extraconiugale, una figlia problematica, un tumore che lo porta alla morte.

È stato detto che il segreto di Stoner è proprio la sua “normalità”: in un momento in cui l’imperativo sociale è quello di “distinguersi” dagli altri, la storia di quest’uomo qualunque ha finito con l’acquistare un che di eroico, rispecchiando desideri e frustrazioni di tutti. Ma per Williams, Stoner non era affatto un uomo qualunque. Nel corso di un’intervista concessa a Brian Wooley nel 1985, ebbe modo di dire:

La cosa importante per me, nel romanzo, è il senso del lavoro che ha Stoner. Insegnare per lui è un lavoro – un lavoro nel senso buono e onorevole del termine. Il suo lavoro gli ha dato un particolare tipo d’identità, e l’ha reso ciò che è stato.

Credo che avrebbe detto la stessa cosa di se stesso in quanto scrittore.

Ciò che più mi ha colpito, traducendo Stoner, è stata la chiarezza dello stile. A volte mi ritrovavo a girare a vuoto, cercando di restituire il senso di una parola o di una frase, per poi capire che dovevo ritornare al punto di partenza, e sforzarmi di togliere il superfluo. La principale qualità di Williams, credo, è l’essenzialità. Le emozioni che racconta ci travolgono perché sono descritte con una precisione e una semplicità abbacinanti. Mentre traducevo le ultime pagine di Stoner ero così preso dalla situazione, così immedesimato nel protagonista, che ricordo di aver pensato con sgomento: Adesso muoio anch’io…

Nessun romanzo mi aveva mai turbato tanto. Williams dice che è questione d’amore.

La cosa essenziale, è amare ciò che fai. Se ami una cosa, alla fine la comprendi. E se la comprendi, imparerai moltissimo.

Ecco, mi sono ritrovato anch’io a parlare bene di Stoner.

 

Stefano Tummolini

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