Michel Onfray
La politica del ribelle
Trattato di resistenza e insubordinazione
Traduzione di Tommaso Ferrero
Postfazione di Massimiliano Panarari
Nel Trattato di ateologia ha demolito i dogmi delle religioni monoteiste. Nella Teoria del corpo amoroso ha affermato la necessità di un edonismo gioioso e vitale. Nella Scultura di sé ha rivendicato l’importanza di una morale laica. Nella Politica del ribelle Onfray riparte all’attacco, con la consueta vis polemica, dei valori della società occidentale con una nuova arma: l’opposizione al potere costituito.
L’elogio della sovversione potrebbe apparire quasi scontato in un pensatore come lui, sempre controcorrente, ma qui si tratta di una sincera apologia della disubbidienza, che per Onfray è una forza insita nell’uomo, un insopprimibile desiderio di rivolta che si fa più impellente in un’era dominata dalla violenza come quella in cui viviamo.
Guardando all’ultima grande esperienza di lotta collettiva che l’Europa ricordi, il ’68, ci invita a recuperare lo spirito del Maggio francese per abbattere «i bastioni del giornalismo, della televisione, delle gallerie d’arte, dell’editoria». Ma si ripropone anche di perfezionare gli ideali e gli obiettivi della protesta d’allora alla luce di una revisione del concetto di anarchia, finalmente realizzabile ora che i diktat dalle grandi ideologie sono venuti a cadere.
In questa fase storica c’è dunque spazio per l’elaborazione di «una teoria mistica di sinistra», che si oppone al dominio dilagante del mercato per restituire un po’ di felicità a un mondo sottomesso all’economia.
«È la nuova star della filosofia francese. Perché Michel Onfray non propone teoremi di idee, ma parla soprattutto di felicità».
Manuela Grassi, «Panorama»
«Chi non sopporta il politichese deve assolutamente leggere questo attuale pamphlet».
«Le Nouvel Observateur»
– 31/10/2008
La politica del ribelle
– 09/07/2008
Onfray, Michel, La politica del ribelle.
Nel panorama filosofico internazionale, l’opera di Michel Onfray ha certamente attirato l’attenzione di critici e ammiratori di vario tipo. Pensatore materialista, edonista e fortemente antireligioso, riesce a far parlare di sé per lo stile irriverente e l’arguzia argomentativa.
Dopo il Trattato di ateologia e La scultura del sé, l’analisi intrapresa raggiunge l’ambito in cui tutte le istanze evidenziate precedentemente trovano il loro porto naturale, ovvero la sfera politica.
Ne La politica del ribelle lo spirito caustico e trascinatore disegna una fisionomia compiuta e sistematica e raccoglie i frutti di una critica rivolta alle fedi, all’economia capitalistica, ed a ciascuna forma di coercizione subita dal genere umano nell’ambito della biopolitica. Questo esito è inevitabile perché ogni critica al potere, alla violenza che schiaccia, confonde, ingabbia e uccide non può esimersi dalla visione alternativa di un uomo nuovo, libero e padrone di sé.
La resistenza e l’insubordinazione fioriscono nell’anima dell’autore fin da ragazzo, quando, costretto a lavorare il fabbrica, scopre un mondo di reietti e frustrati, schiavi e padroncini, servi e signori.
La vena autobiografica dà l’incipit ad una narrazione davvero convincente e appassionata: la descrizione del mondo oscuro dei poveri, degli affamati, dei derelitti è segnata da una colorita capacità di suggestionare il lettore. L’evidenza delle persone, la loro esistenza quotidiana, non può esser schiacciata dall’autorità, e contro ogni escatologia legata al soggetto, al popolo o alla massa, Onfray opta per la singola carnale individualità, rivelando ancora una volta un punto cardine del suo filosofare, ovvero l’edonismo, il desiderio del piacere, la gioia dell’esteta che si gode la vita senza il peso di nessuna imposizione o ideologia.
Il libro si articola in quattro parti fondamentali, dedicate all’analisi della realtà, dell’ideale, dei mezzi e delle forze. L’anticonformismo narrativo trova la sua massima espressione attraverso la denuncia delle infamie del capitale, questo mostro tentacolare e deforme, che stritola nelle sue maglie le vite dei più deboli fino a trasformare gli uomini in amebe, molluschi, mostri deformati dalle piaghe della fame, dell’indigenza. La televisione, la scuola e lo Stato non solo hanno abdicato al ruolo per loro auspicabile, ma sono letteralmente capitolati di fronte alla grande finanza, che impone una salute ed una istruzione a pagamento, un revisionismo storico nazionale, una rincorsa al consumo materiale e intellettuale di porzioni di nulla.
Onfray è drasticamente realista, ma non cede mai all’abbandono o al fallimentarismo. Fulcro della sua trattazione è certamente la rabbia. Essa deve risollevare gli animi, stracciare il velo di Maia sui nostri occhi e trasformare gli schiavi in nuovi dissidenti. Ciò di cui si sente il bisogno – per il filosofo francese – è l’impegno personale ad una estetica del ribellismo: gli autori più amati non sono solo poeti e scrittori quali Wilde o Baudelaire, ma quei socialisti utopisti vicini a Proudhon o Blanqui, proprio per la capacità visionaria di fuggire la scientificità totalizzante del marxismo, la dottrina – per il pensatore – del popolo sopra l’individuo,della massificazione alienante. Uno spazio particolare lo dedica a Nietzsche e a Foucault, per la grande carica emancipatrice delle loro opere, e l’attenzione al singolo, così rigorosa e imprescindibile nell’analisi.
Nel sostenere questi argomenti, si rivela evidente il limite del libro stesso, e della parte centrale dell’opera: il furore delle arringhe trascina la discussione in improbabili ricostruzioni della storia della filosofia, ma soprattutto ad una eccessiva generalizzazione dei percorsi storici, a cui va aggiunta una prospettiva fastidiosamente provinciale, legata al territorio nazionale ed alle sue beghe politiche. Non vi è pressoché cenno al mondo anglosassone ed ai suoi intellettuali, così attuali nel dibattito, e troppa attenzione invece è rivolta al mondo francese, rendendo la discussione poco articolata. La forzatura effettuata a danno di alcune categorie concettuali lascia per lo meno perplessi: basti l’esempio del rifiuto di ammettere il forte estetismo che il nazismo ed il fascismo assumevano nelle loro liturgie di morte, nei discorsi, nella figura dell’Ariano. Per difendere la sua idea di estetica, Onfray nega qualsiasi paragone tra violenza e arte, sostenuto invece dal Führer e dai suoi seguaci e cerca di convincere il lettore a condividere una improbabile riscrittura della genesi delle idee. Il culmine è raggiunto quando si mettono sullo stesso piano, in un breve passaggio, Lenin e Mussolini, e si crea l’equazione tanto amata proprio da chi Onfray disprezza, ovvero i revisionisti.
Sebbene quindi il trattato sia di forte impatto, resta il sospetto che lo scrittore resti più attento alle aspettative di quanti comprano i suoi libri, piuttosto di approfondire l’analisi. Per tali ragioni la spaccatura fra esposizione narrativa- forte, avvincente e sferzante – e il contenuto del testo – oscillante, univoco e a tratti generalizzante – emerge prepotente e netta.
Strenuo difensore dell’anarchismo e dei suoi personaggi, il filosofo francese rischia spesso di denunciare ogni altra dottrina che non abbia il gusto del gesto estetizzante o individualistico, edonistico, a scapito della riflessione calma e puntuale.
I mezzi, i fini della politica trovano il loro portavoce in una figura incredibilmente avvincente a cui è dedicata la conclusione del libro. L’anarchico Blanqui, con la sua vita travagliata, tra un carcere ed un assalto, viene omaggiata e offerta quale esempio di uomo incorruttibile, deciso, nobile e umanissimo. Il ritorno ad una prosa libera dall’analisi storica e concettuale, tema precedentemente analizzato, arricchisce il volume di quella vis polemica che tanto ha contribuito a rendere Michel Onfray un filosofo attuale e audace: i dubbi evidenziati precedentemente scemano e appare invece di nuovo viva la figura del combattente senza paura, un Don Chisciotte del XXI secolo il quale, nonostante il passare degli anni, continua a raccogliere la sfida di sognare un mondo differente, libero per sé e gli altri.
Come suggerisce Massimiliano Panarari in una preziosa postfazione, il ritratto del filosofo è anche il ritratto della propria filosofia, del desiderio di riprendere le idee del Maggio ’68, il suo spirito trionfale tristemente tradito, e rinnovare una mistica di sinistra – sentimento, ovviamente, da iscrivere in una immanenza laica – libera da vecchi paradigmi e forte invece del coraggio di affrontare le sfide lasciate in sospeso dal precedente secolo breve.
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