Gore Vidal
Il canarino e la miniera
Saggi letterari (1956-2000)
Traduzione di Stefano Tummolini
Postfazione di Claudio Magris
«“La vita”, scrive Gore Vidal condensando fulmineamente in mezza riga il senso dell’Educazione sentimentale di Flaubert, “non è altro che deriva”. Anche i cinquant’anni in cui spaziano questi suoi saggi – il primo lo ha scritto a trentun anni, l’ultimo a settantacinque – sono una deriva, quella della nostra esistenza individuale e della Storia, un mezzo secolo in cui tante cose sono cambiate e stanno cambiando in una misura sconvolgente e con una rapidità finora ignota e impensabile. […] Questi scritti, dedicati ad autori del passato prossimo o remoto e del presente, sono dei ritratti critici di scrittori e di opere e sono contemporaneamente una rete gettata nel fluire di questi cinquant’anni, che riporta a galla e a riva umori, passioni, speranze, allergie, abbagli, malintesi, pensieri e sentimenti di cui è intessuta l’esistenza delle generazioni cresciute e invecchiate in questi anni. Narratore di incredibile vitalità, Gore Vidal è un maestro pure di quel genere letterario – non meno creativo della narrazione – che è il saggio: un testo che, analizzando rigorosamente un tema o un oggetto preciso, parla sempre anche di qualcosa d’altro, di cui il tema esplicito è occasione e metafora. Il canarino e la miniera parla di Mark Twain, di James, di Oscar Wilde, Henry Miller, Fitzgerald, Prokosch, Tennessee Williams, o di autori a noi poco noti come Dawn Powell o Louis Auchincloss, ma anche di classici come Montaigne o di scrittori italiani quali Sciascia o Calvino. Ma il libro è qualcosa di più di una serie di ritratti critici quasi sempre perfetti – spregiudicati e magnanimi pur nell’impietosa o ironica franchezza. È una chiacchierata sulla vita e la sua deriva di questo cinquantennio, di cui la letteratura è insieme specchio e figura; il pittore, il quadro e il modello; il giudice e la folla che si accalca nell’aula del tribunale. […] Vidal ha il genio di cogliere in pochi tratti, talvolta con una sola frase, l’essenziale di un libro o di un autore, infilandosi nell’opera come attraverso una feritoia, e subito dissimulando la tagliente incursione in un’affabile e anche divagante conversazione. Alcune volte, come è ovvio, accade di dissentire radicalmente da lui […]».
Dalla postfazione di Claudio Magris
«Qualunque argomento affronti, Vidal lo fa con la finezza e la potenza dell’artista, la coscienza dello studioso, la persuasione del grande saggista».
Dalla citazione per il National Book Award del 1993
«Gore Vidal, saggista. Talmente bravo che non riusciremmo mai a farne a meno. È un tesoro di Stato».
R.W.B. Lewis, «New York Times Book Review»
– 11/01/2004
La sensibilità del canarino
Lo scrittore è un sismografo, si sentiva dire una volta. Ora il romanziere e saggista statunitense Gore Vidal, nato a Washington nel 1925, grande conoscitore delle classi dirigenti e satirico spietato, ha proposto una metafora meno pretenziosa. Più che un sismografo, lo scrittore è un canarino: “Nelle miniere di carbone in America, i minatori portano spesso con sé un canarino. Lo mettono nel pozzo e quello canta. Se per caso smette di cantare, per i minatori è il momento di uscire: l’aria è velenosa. Per me, noi scrittori siamo canarini”. Dato che in questo caso l’autore vive lunghi periodi in Italia, si deve pensare che il canarino-Vidal trova avvelenata l’aria della miniera-Usa. Per cantare (cioè scrivere) ha bisogno di starsene altrove.
Da questa delicata e allarmante invenzione, resa pubblica durante una conferenza tenuta a Roma nel 2001, nasce il titolo dell’ultimo libro di Vidal uscito in Italia: Il canarino e la miniera. Si tratta di un libro eccezionalmente utile e tonificante per il nostro pubblico: per giornalisti culturali, professori e studenti di letteratura e per ogni lettore colto. La prima parte del volume può funzionare come un’ottima introduzione alla letteratura americana, da Mark Twain a Henry James a Thomas Pynchon, mentre nella seconda da Montaigne si arriva alla letteratura francese d’avanguardia, a Sciascia, a Calvino, a Mishima, a Kavafis.
Nella sua varietà il libro è meno rapsodico di quanto sembrerebbe. Oltre a eccellere nell’arte del ritratto, Vidal esprime benissimo anche se stesso mettendosi continuamente in gioco nel corpo a corpo con autori, libri e idee. E dimostra di essere (per chi non se ne fosse già accorto) uno dei saggisti più liberi, competenti, divertenti e “seri” degli ultimi decenni. Negli anni in cui la critica letteraria e la critica della cultura hanno oscillato tra l’euforia teorica e la constatazione del proprio declino, Gore Vidal ha mostrato che senza abbandonare i più elementari compiti del giornalismo e le più classiche ambizioni della letteratura si può fare ancora moltissimo. La scelta dei suoi obiettivi polemici gli permette di caratterizzare un’intera epoca, non ancora finita, della cultura letteraria occidentale. Nei saggi dedicati alla narrativa contemporanea, dal vecchio Nouveau Roman della Sarraute e Robbe-Grillet al più recente postmodernismo americano (“American Plastic”), passando attraverso critici piuttosto ipnotici come Roland Barthes e Susan Sontag, vengono smontati alcuni miti teorici che hanno tenuto occupata per anni anche la cultura italiana e senza i quali la narratologia accademica e le scuole di scrittura creativa non saprebbero che cosa vendere.
Secondo Vidal il romanzo non progredisce verso un futuro migliore perché qualcuno escogita delle tecniche innovative, come credono gli autori “da laboratorio”. Anzi, il romanzo non progredisce affatto: non va pensato in termini di evoluzione o di avanguardia. Ieri come oggi, si tratti di Tolstoj o Flaubert, di Saul Bellow o di Sciascia, in letteratura succede qualcosa solo quanto l’autore è “interamente preso dal suo soggetto”.
Parlando di Calvino (“un vero maestro moderno”) Vidal non si lascia prendere da nessuna di quelle manie sofistiche che a partire dagli anni Sessanta si sono impadronite sia dello scrittore che dei suoi critici. Al Calvino influenzato da Borges e dalla semiologia Vidal non dà molto credito. Per Vidal il nostro Calvino, più che surreale o fantastico, resta uno scrittore realista, per il quale, come disse lui stesso una volta, “la fantasia è come la marmellata, bisogna spalmarla su un solido pezzo si pane”, che è l’osservazione dal vero.
Sul futuro del romanzo Gore Vidal non si fa molte illusioni. Ripete di continuo che con le ultime generazioni del Novecento il cinema, la tv e altri audiovisivi in fondo sono preferiti anche da coloro che leggono e studiano letteratura. Se lo scrittore non si trasforma in un personaggio spettacolare, in un fenomeno sociale o psichiatrico, non attira l’attenzione e non si guadagna la fama. L’interesse è passato dai libri alla vita vissuta. Vidal analizza quanto è successo con Oscar Wilde, Fitzgerald, Henry Miller, Tennessee Williams e Mishima. Così la letteratura è minacciata da due feticci: da un lato la biografia degli autori come parabola esemplare, dall’altro la testualità intesa come strutturazione calcolata di elementi astratti.
Come si difende da questo Gore Vidal? Rispetto alla narrativa americana, che fa perno sulla fede nell’individualismo alla ricerca del proprio io. Vidal ha scelto un’altra strada: usare la propria esperienza per costruire un’immagine del mondo sociale e politico più vera di quella ufficiale. I suoi genitori sono la satira e il romanzo storico.
In questo libro tuttavia il grande classico evocato come nume protettore è Michel de Montaigne, che lesse innumerevoli libri solo allo scopo di studiare se stesso. “Da trent’anni – scrive Vidal – tengo a portata di mano, se non sul comodino accanto al letto, l’opera completa di Montaigne”. Le ragioni sono sia politiche che stilistiche. Bastano due citazioni. Montaigne politico: “Per funzionare al meglio, le leggi devono essere poche, semplici e generali. Credo addirittura che sarebbe meglio non averne affatto, piuttosto che averne troppe, come avviene oggi”. Montaigne scrittore: “Voglio che le cose si impongano, riempiendo a tal punto i pensieri del lettore da fargli persino dimenticare le parole. Amo i discorsi semplici e naturali, sia sulla carta che sulle labbra”. Invece gli “autori francesi del nostro tempo sono abbastanza fieri e orgogliosi da non seguire la strada già battuta, ma la mancanza di fantasia e l’eccessiva cultura li distruggono. Non vediamo altro che sciagurate ostentazioni di modernità, fredde e assurde invenzioni…”.
Per amare Montaigne esistono tuttora delle buone ragioni, mi pare.
– 17/01/2004
Letteratura in pelle e muscoli
”Sono rimasto a casa a scrivere”, rispondeva Flaubert, e a qualcuno degli interroganti questa sembrava una risposta conveniente all’immagine che vuole lo scrittore ritirato nel profondo delle stanze a sondare le profondità inaudite dello spirito. Peccato, per loro, che fosse solo una citazione dall’ottimo e poco monacale Orazio, e peccato che anche allora fossero in pochi a cogliere lo scintillio della lama tra i velluti opachi e morbidi della cortesia. Gore Vidal, è chiaro, non risponderebbe mai in questo modo e quando cita l’episodio è solo per precisare che uno scrittore del genere regalerebbe ai posteri una biografia alquanto deludente. Vidal è invece titolare di una biografia molto movimentata e dal canto suo lascia intendere che per niente al mondo rinuncerebbe a una serata piacevole per attendere alla composizione di una bella pagina. Anche i Saggi letterari 1956-2000, scelti e raccolti da Fazi ne Il canarino e la miniera (postfazione di Claudio Magris, traduzioni di Stefano Tummolini, Luciana Bulgheroni Spallino, Alessandra Osti, Pier Francesco Paolini e Chiara Vatteroni, pp. 318, euro 20), denunciano con chiarezza quella che è stata da sempre una delle prerogative di Vidal, autore di un gran numero di romanzi, opere teatrali, testi cinematografici, saggi politici di impatto clamoroso sull’opinione pubblica non solo americana. Uomo pubblico a tempo pieno, dunque, i cui saggi sono definibli sì letterari, a patto però di far sgusciare il termine fuori dalla cella di qualsivoglia conventicola: e Magris gli riconosce la marginalità nel saggismo. Nessuna pietà per le consorterie che accettano come buoni solo romanzi destinati alle mandibole di accademici intorpiditi, quelli che lui chiama i romanzi U, consumabili esclusivamente nelle aule dei Dipartimenti di Letteratura dagli “scoiattolini studiosi”, presso i quali trionfa quello che a Vidal appare come il più deprimente peccato degli americani, il moralismo. Per uno che nel ’48, ignorando tutti gli ammonimenti, aveva pubblicato The City and the Pillar (in it. La statua di sale); che spezzava con un colpo solo il mito orgoglioso del marine virile e il pregiudizio che i “peccatori” scontino le loro colpe all’ombra di ingloriosi fallimenti esistenziali; e che ha proseguito con intatta fedeltà all’impertinenza – sempre però in modo da divertire se stesso e non annoiare il suo pubblico -, e per di più facendo tutto questo con estrema pertinenza e successo; per un siffatto autore, insomma, la sola evocazione di cattedre, scoiattolini, tesi di dottorato, note doviziose a piè di pagina e altre farragini induce ad un irrevocabile: “Si è fatto tardi, la carrozza ci attende”.
La letterarietà ha per Vidal confini più ampi delle aule universitarie, dei davanzali e delle scrivanie. A sprofondare tali perimetrazioni provvedono sia una insopprimibile carnalità, ovvero quella porzione di energia che, prima di farsi spirito, intelligenza, memoria, arguzia o pettegolezzo, si fa pelle, ossa, muscoli, tuguri e liquidi vitali (la “tirannia eterosessuale” non ha alcun potere su di lui), sia un uso disincantato della storia – la fine dell’impero romano è per lui un paradigma. La biografia dell’autore ha nel mondo anglosassone un peso che di norma nel vecchio continente non si è disposti a riconoscere. Ma quello che fa Vidal quando prende in esame un romanzo è più complesso: egli legge il testo all’interno della mappa che è l’esistenza dell’autore, l’esistenza dell’autore del sistema delle connessioni sociali e psicologiche col suo tempo, e colloca poi tutto questo nella prospettiva delle età e delle civiltà umane. Esemplari in questo senso l’ampio saggio sulla irregolare Dawn Powell, quello su Scott Fitzgerald e anche il medaglione dedicato a Leonardo Sciascia. Sull’essere umano premono alcune forze: scrivere vuol dire organizzare una risposta e una reazione. La morte di Mishima, ad esempio, è rappresentata come l’emblema della tragedia che incombe su qualunque ideale di perfezione che non voglia arrenderesi all’evidenza che il mondo è mutevole; nessun culto, nemmeno quello del corpo perfetto, ha il potere di sospendere l’agone, la sequenza di azione e reazione che intercorre, nei due sensi, tra la società e l’individuo. Leggere vuol dire cercare il modo con cui quello scrittore ha superato (scavalcato, scavato, scardinato) il recinto dei problemi che stanno all’origine della sua pagina. Niente ostacoli, niente scrittura. L’arte, scrive in American Plastic: la materia della narrativa (1974), è energia disciplinata e ordinata dall’intelligenza. E sia ben chiaro che la vita è solo una modesta imitazione dell’arte, enunciato cristallino che Vidal (e non Oscar Wilde) incastona a chiusura di uno sfolgorante saggio sulla Coppa d’oro di James e sul meccanismo nel quale i suoi personaggi restano intrappolati. E dunque non basta essere “all’avanguardia”, se ciò – come nel caso del Nouveau Roman, contro cui spara a zero – vuol dire essere considerati solo dagli “addetti ai lavori”.
– 14/04/2004
Gore Vidal, Il canarino e la miniera
Vorrei dichiarare senza mezzi termini che questi saggi letterari, pubblicati tra il 1956 e il 2000, sono bellissimi, intelligenti, godibili come altrettanti, magistrali racconti. Lo avessimo in Italia un lettore così aperto e onesto e sottile e lontano da birignao e scempiaggini pseudointellettuali, come Vidal! Non c’è pagina, in questa raccolta, che non sia autenticamente motivata. E anche quando non condividi un giudizio critico, ne rispetti la coerenza. Non basta. Se prendete ad esempio le pagine dedicate a Sciascia e Calvino, o quelle memorabili sul romanzo sperimentale americano degli anni Settanta, vedete come l’autore fa precedere ogni disamina critica da un puntuale inquadramento storico e politico. E il tutto senza accademismi e barbe professorali: al contrario, con levità e quel tanto di mondano, che rendono la grande storia un affare di cui siamo parte. Tanti i traduttori, postfazione di Claudio Magris.
– 29/03/2004
Vidal, il sarcasmo di una voce contro
ERA molto tempo che non mi appassionavo così leggendo un saggio di letteratura. Gore Vidal, in questa eterogenea ma stilisticamente unitaria raccolta di saggi letterari che attraversa quasi mezzo secolo ( Il canarino e la miniera , Saggi letterari 1956-2000, Fazi, 315 pagine, 20 euro), non ti stanca e anzi ti strega con la forza dello stile semplice e raffinato, con il dominio assoluto del materiale filosofico, culturale, storico che maneggia. Il giudizio, sempre chiaro, netto e irrevocabile che egli esprime riposa su una profonda conoscenza di tutta la cultura occidentale, da quella classica a quella postmoderna, e su un infallibile fiuto del bello e del necessario dell’arte.
La sua voce, a volte tagliente, è capace di formulare con ricchezza di motivazioni e con rigore intellettuale qualunque sentenza, come nella definitiva stroncatura di Pynchon: «Paragonare Pynchon a Joyce è come paragonare un ragazzino dell’asilo a uno studente universitario (…). La prosa di Pynchon procede monotona, interrotta di tanto in tanto da alcune canzoni, le cui parole sono tanto brutte quanto quelle di Bob Dylan» (…) «sospetto che l’energia necessaria per leggere L’arcobaleno della gravità sia maggiore di quella occorsa a Pynchon per scriverlo». Certo, immagino che i cultori di Pynchon (così numerosi anche da noi) abbiano sudato freddo leggendo queste righe e avrebbero tante cose da dire a difesa del loro beniamino. Così come quei sostenitori del “Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan!”, e quanti ce n’erano non tanto tempo fa nel nostro ceto intellettuale, anche loro avranno tremato. Eh sì, il giudizio di Vidal ferisce, smaschera il kitsch e l’inautentico che si annida ormai in ogni anfratto della cultura contemporanea. Egli sa bene che cos’è il postmoderno, lo ha conosciuto dall’interno, lo ha anche rappresentato in talune opere. La sua non è dunque una critica ideologica. Egli non è un “realista” schierato.
Il suo realismo infatti abbraccia anche Calvino. Spende molte pagine ad analizzare l’opera dell’amico scrittore italiano. Ma non si fa certo condizionare dall’amicizia nello scandire il suo giudizio nel quale lo accusa di essere stato in alcune opere troppo deferente nei confronti della semiologia e del “Nuovo romanzo” della Sarraute e di Robbe-Grillet, di aver talora ricalcato pedissequamente Borges. Ma altrove dichiara senza mezzi termini: «Calvino è un artista formidabile e originale, per essere fuorviato dai teorici o compromesso dall’esempio di un altro autore». Vidal riesce a dire qualcosa di interessante e originale sul tema consunto della “morte del romanzo” e sull’eclissi della satira. Prima dimostra di non avere pregiudizi sulla letteratura dell’autoconfessione, ma poi precisa: «Ma per fare dall’arte con l’autoconfessione è necessario dire la verità. E a meno che Henry Miller sia in effetti un Dio (il che non è da escludere per mancanza di prove contrarie), egli non dice la verità».
Il sottile sarcasmo, che permea molte sue riflessioni, non è mai fine a se stesso, saccente o compiaciuto. Non gioca con la cultura, tiene sempre ben separati l’alto e il basso. E’ incapace di colpi bassi, Gore Vidal, stringe un patto di ferro con il suo lettore, ch’egli ritiene armato di saggezza come lui. Ti faccio sorridere per un attimo, ma subito ti riaggancio alla motrice della semplicità formale, della logica e del buon senso. Nella sua ampia e articolata postfazione al volume, Claudio Magris, pur dicendo molte cose giuste e interessanti sul grande scrittore americano, non rivela una vera empatia con lui. Forse la visuale cristiana e mitteleuropea, eurocentrica, dello scrittore triestino è troppo lontana dall’universo apolide e pagano di Vidal. E tuttavia Magris non può non riconoscere che leggendo queste pagine «si vivono esperienze rivelatrici, che fanno capire un testo, un autore, una stagione culturale». Sono tanti gli scrittori di cui ci parla Vidal: da Henry James a Sciascia, da Twain a Wilde, da Fitzgerald a Barthes e Mishima… Ne viene fuori una galleria di ritratti straordinaria e stilisticamente omogenea, in una prova da grande saggista.
– 16/02/2004
Vidal spina nel fianco dell’America
“Com’è triste e deprimente il lavoro del critico”, scriveva Diderot. “Creare qualcosa, sia pure qualcosa di mediocre, è difficilissimo: mentre è facilissimo riconoscere la mediocrità”. O il grande filosofo esagerava di proposito, oppure gli americani hanno sempre vissuto in un continuum completamente diverso da quello europeo. “Produrre cose mediocri, per noi, è la norma; mentre la capacità di riconoscere la mediocrità, o qualsiasi altra cosa, è rara”. Così si esprime Gore Vidal, lo scrittore e critico considerato negli Stati Uniti un vero e proprio patrimonio nazionale, sulla difficoltà di essere artisti e studiosi in una patria in cui la banalità è il risultato costante d’un ordine di fattori da sempre destinati a condizionare la produzione letteraria. Si tratt delle parole che aprono uno degli interventi della raccolta “Il canarino e la miniera. Saggi letterari 1956-2000”, edita da Fazi e articolata in due parti, delle quali la prima ripercorre fasti e miserie dell’impero (letterario e non) americano da Mark Twain al postmodernismo, mentre la seconda, dedicata alla letteratura d’oltreoceano, fornisce in primis un omaggio a Montaigne, nonché i tributi a Sciascia e Calvino, con i quali lo scrittore suggella il suo legame con l’Italia. Vidal scruta meticolosamente nelle pieghe della società americana, soprattutto per demistificare una certa visione della scrittura e dell’attività critica, profondamente radicata in uno scenario artistico sempre più desolante, quello che considera il romanzo in crisi pressoché irreversibile, malgrado lo si cerchi di tenere in vita artificialmente, magari allestendo, per un pubblico americano sonnolento e un po’ pettegolo, un’immagine la più accattivante possibile degli scrittori, fino a dotarla, quell’immagine, di un alone di leggenda destinato a sopravvivere oltre la vita degli stessi.
Bisognerà comunque aggiungere che la prospettiva d’un mondo contemporaneo dominato dai media e da nuove forme d’intrattenimento emerge, in Vidal, già dai saggi scritti negli anni Cinquanta che, all’epoca, gli valsero molte critiche, soprattutto da parte di quegli accademici che vedevano nel romanziere come divo una garanzia per la sopravvivenza del mondo letterario, e, di conseguenza, una fonte inesauribile di guadagno per critici-parassiti che sbarcano il lunario con gli studi biografici anziché cimentarsi con quelli filologici. Ecco, allora, che Vidal ci regala un’analisi al vetriolo di alcuni tra i più acclamati romanzieri, dentro pagine che li dipingono come prigionieri del loro stesso personaggio, figure di solito più decadenti che geniali: e così, accanto a un radicale ridimensionamento di F. Scott Fitzgerald, troviamo un’esilarante parodia del Sexus di Henry Miller, laddove s’irridono le sue trasgressioni più da sbadiglio che da shock; mentre di Hemingway viene esplicitamente messo in dubbio il fatto che i suoi romanzi, presi per se stessi, avrebbero potuto garantirgli un posto nel pantheon nazionale, senza cioè, far valere il corollario delle sue eclatanti vicende personali, note a tutta l’America: un’America segnata indelebilmente dalla greve combinazione di moralismo e pruderie. L’immagine che ci resta è quella di un paese che non è cambiato troppo da quando il nonno di Vidal incontrò Oscar Wilde nel corso della sua tournée americana, e ne restò profondamente scosso: ” “Indossava”, mi raccontava il vecchio nonno con voce tremante, “un busto, e aveva un fiore nella mano””.
Se deve immaginare un destino possibile per un romanzo, Vidal lo vede affidato a quei pochi volenterosi i quali sanno che il grande pubblico s’è dissolto, soggiogato com’è da altri idoli, ma al tempo stesso coltivano la consapevolezza che “vale ancora decisamente la pena di scrivere qualcosa di buono”, al di là delle illusorie lusinghe della gloria accademica, o degli allori conquistati nei talk-shows. Oltre ai saggi dedicati a scrittori che già costituiscono la spina dorsale del canone americano, tra cui Tennessee Williams, ne troviamo altri che rivolgono uno sguardo nostalgico ad alcuni romanzieri tra i meno considerati dalla critica, come Prokosch e Auchinloss, o addirittura completamente dimenticati come Dawn Powell, la scrittrice di romanzi ferocemente satirici che da tempo non vengono più ristampati. In queste pagine l’acutezza del Vidal critico si fonde con quella dell’autobiografo, che s’avvale dei ricordi prima di ragazzino e poi di giovane scrittore, per rendere un omaggio, pur se tardivo, ad artisti che non hanno mai rinunciato a seguire il proprio istinto e il proprio stile, un imperativo condiviso anche da Vidal, il quale ha inseguito la musica della satira, in America sempre latitante, facendosene un strumento per forgiare i propri romanzi, un pennello che desse forma e colore agli scritti critici.
In questo cangiantissimo mosaico spiccano delle istantanee grottesche e un po’ surreali: come il momento della declamazione ispirata da parte di Prokosch di alcuni versi di Virgilio, scambiato per Dante da “un professore a tutti gli effetti”. Con il risultato di immortalare in un’immagine, in una battuta, l’essenza di un’epoca. I saggi brillanti e pungenti di questa raccolta trascorrono come le scene d’una commedia di cui non vorresti mai vedre la fine: e costituiscono la personalissima testimonianza d’uno scrittore che non s’è mai inchinato di fronte all’uso spregiudicato e fine a se stesso del linguaggio, alle teorizzazioni a oltranza che hanno contribuito alla crisi del romanzo nell’ultima metà del Novecento. L’ultima risposta di Vidal alla critica che si autocelebra, nei modi d’una letteratura di romanzi scritti come per esemplificare una formula didattica, è un’ironica metaforizzazione che bruscamente ci riporta al mondo animale: ecco allora che il critico a caccia di dati diventa uno studioso-scoiattolo, “per il quale ogni stagione è maggio”; mentre il biografo che insegue l’evento senzazionale ha il volto infausto della civetta. Uno scrittore come Vidal, invece, non può che rappresentarsi nel canarino, quello che i minatori americani portano con sé nelle miniere di carbone, e che, laggiù, smette di cantare quando l’aria è diventata velenosa, indicando che è il momento d’uscire. In questi termini Vidal parlava in una conferenza tenuta a Roma nel 2001, a proposito del suo modo di vivere la condizione d’artista: un ruolo apparentemente minimo, certo, ma che riesce a colpire più a fondo di qualunque altro.
– 02/03/2004
Alla critica la satira dà il sapore
Tanti e tanti anni fa, diciamo all’inizio degli anni Sessanta, un nuovo verbo narrativo si formò in Francia e in brevissimo tempo superò le Alpi e dilagò in Italia. Era il verbo del «Nouveau Roman», di cui Nathalie Sarraute e Robbe-Grillet erano i principiali protagonisti. Non solo scrivevano i «nuovi romanzi» (secondo loro) ma li piantavano, per dir così, sul piedistallo di una teoria che sembrava tetragona.
I meno giovani ricorderanno i salti di gioia di alcuni avanguardisti italiani, ai quali non pareva vero di fare i rivoluzionari sciapi sparando a chicchessia quelle teorie. Facevano quasi paura, comunque intimidivano, e non pochi bravi scrittori nostrani furono costretti quasi al silenzio. E pensare che le teorie della Sarraute e di Robbe-Grillet erano bombette di cartapesta, perfino ridicole, e tuttavia anche oggi c’è qualche reduce della Neovanguardia italiana che le prende per oro colato. Per esempio Renato Barilli che di recente ha pubblicato per gli Oscar Mondadori la sua Linea Pirandello-Svevo anteponendovi una prefazione che è tutto un inno al modernismo cieco.
Consigliamo ai nostalgici di quelle teorie sciocche di leggere un saggio di Gore Vidal inserito nel suo bellissimo volume Il canarino e la miniera, Saggi letterari 1956-2000 (Fazi ed., pp. 312, euro 20,00). E’ una demolizione perfetta, condita da un’ironia superiore, scritta nel 1967. Rari in tutto il mondo sono i romanzieri come Gore Vidal. Perché oltre a scrivere opere di narrativa di assoluta eccellenza, scrive saggi e articoli che sono una festa per il pensiero pensante. E chi avesse qualche dubbio si legga questi scritti. Si tratta di un manipolo di saggi che vanno dal 1956 al 2000. Nella succosa postfazione, Claudio Magris scrive: «La satira è una delle corde di Vidal, ma egli sa bene che essa – vendicatrice della natura oltraggiata e pervasa da un senso di assoluto rigore e dalla fede nell’autentico – è in difficoltà nel nostro mondo globale che ingloba tutto, anche e soprattutto gli attacchi che le vengono rivolti in una colloidale totalità in cui anche la natura è passata dall’altra parte. In un’epoca come la nostra… la satira è più soggetta a prenderle che a darle». Sante parole, e non c’è alcun bisogno di dimostrare l’assunto, basta pensare alle figuracce repellenti della nostra beneamata tivù di Stato.
Per fortuna, Vidal ha altre frecce al suo arco, oltre a quelle satiriche. Democratico americano, convinto che la verità e la libertà non si possono tirare a piacere dalla propria parte, è anche oggi, a quasi ottant’anni, la bestia nera dell’amministrazione Bush. Si tenga presente che Vidal è l’unico scrittore e intellettuale americano che conosca a menadito gli odori, i sapori, le faccende e gli orditi della Casa Bianca, e non perde occasione di raccontare quello che sa. Ovviamente, il meglio del Canarino e la miniera non sta nelle analisi politiche (peraltro qui quasi assenti) bensì nella saggistica letteraria, che comprende interpretazioni di opere e personaggi come Montaigne, Henry James, Oscar Wilde, Henry Miller, Scott Fitzgerald e altri. Ma il bello della saggistica di Vidal sta nel suo concetto di letteratura che abbraccia, giustamente, la politica, la società, il costume e la psicologia individuale. Sicché ogni suo saggio è una immersione totale dentro l’uomo contemporaneo.
Quanto al suo amore per l’Italia, di cui è un assiduo frequentatore, ne fanno fede i suoi bellissimi saggi su Sciascia e Calvino. Insomma, questo è il libro di un uomo colto, sensibile e intelligente, che ci parla del passato per metterci sotto gli occhi il presente.
– 31/01/2004
Gore Vidal, sommo viaggiatore dentro l’uomo contemporaneo
Rari in tutto il mondo sono i romanzieri come Gore Vidal. Perché oltre a scrivere opere di narrativa di assoluta eccellenza, scrive saggi e articoli che sono una festa per il pensiero pensante. E chi avesse qualche dubbio legga Il canarino e la miniera pubblicato dall’editore Fazi. Si tratta di un manipolo di scritti che vanno dal 1956 al 2000. Nella succosa postfazione, Claudio Magris scrive: “La satira è una delle corde di Vidal, ma egli sa bene che essa – vendicatrice della natura oltraggiata e pervasa da un senso di assoluto rigore e dalla fede nell’autentico – è in difficoltà nel nostro mondo globale che ingloba tutto, anche e soprattutto gli attacchi che le vengono rivolti in una colloidale totalità in cui anche la natura è passata dall’altra parte. In un’epoca come la nostra…la satira è più soggetta a prenderle che a darle”. Sante parole, e non c’è alcun bisogno di dimostrare l’assunto, basta pensare alle figuracce repellenti della nostra beneamata televisione di Stato. Per fortuna, Vidal ha altre frecce al suo arco, oltre a quelle satiriche. Democratico americano, convinto che la verità e la libertà non si possono tirare a piacere dalla propria parte, è anche oggi, a quasi ottant’anni, la bestia nera dell’amministrazione Bush. Si tenga presente che Vidal è l’unico scrittore e intellettuale americano che conosca a menadito gli odori,i sapori,le faccende e gli orditi della Casa Bianca, e non perde occasione di raccontare quello che sa.
Ovviamente, il meglio del Canarino e la miniera non sta nelle analisi politiche ( peraltro qui quasi assenti) bensì nella saggistica letteraria, che comprende interpretazioni di opere e personaggi come Montaigne, Henry James, Oscar Wilde, Henry Miller, Scott Fitzgerald e altri. Ma il bello della saggistica di Vidal sta nel suo concetto di letteratura che abbraccia,giustamente, la politica, la società,il costume e la psicologia individuale. Sicché ogni suo saggio è una immersione totale dentro l’uomo contemporaneo. Quanto al suo amore per l’Italia, di cui è un assiduo frequentatore, ne fanno fede i suoi bellissimi saggi su Sciascia e Calvino. Insomma, questo è il libro di un uomo colto,sensibile e intelligente, che ci parla del passato per metterci sotto gli occhi il presente.