di Barbara Carnevali
Questo articolo è stato pubblicato in Germania da «WestEnd. Neue Zeitschrift für Sozialforschung», la rivista legata alla Scuola di Francoforte, che ha dedicato al romanzo di John Williams un dossier intitolato «Stoner: ambivalenze di una figura sociale letteraria». La presentazione e l’indice del numero sono consultabili qui.
La versione italiana è disponibile qui sul blog «Le parole e le cose».
La saggezza di Stoner non conosce Dio. È una morale dell’immanenza che trova il suo fondamento normativo nell’idea di natura, presupponendo una continuità immediata tra fisica ed etica. Forza ciclica, non storica, la natura ignora gli “Eventi” come la guerra: a differenza dei suoi coetanei che partiranno volontari in Europa, Stoner rifiuterà di arruolarsi e continuerà a insegnare e condurre la vita di sempre; le due guerre mondiali si succederanno lungo il corso della sua esistenza una dietro l’altra, come assurde parentesi irrazionali. La temporalità naturale è quella del ciclo della nascita e della morte, dell’alternarsi delle stagioni, del succedersi periodico della salute e della malattia, dei bisogni fisici, dell’attività e del riposo. L’esistenza degli individui si inserisce all’interno di questo ordine metafisico che segue leggi ineluttabili e neutre, che agisce con indifferenza rispetto ai desideri umani e agli interessi particolari di tutti gli esseri viventi. Gli effetti di queste leggi possono apparire ingiusti agli occhi di chi li subisce senza colpa o responsabilità propria: il contadino inerme, che vede il suo raccolto devastato dalla carestia, o il bambino che scopre la deformità del suo corpo con vergogna, senza trovarvi spiegazioni, come confida Hollis Lomax nel solo momento di intimità con i colleghi:
the early shame which had no source that he could understand and no defense that he could muster (p. 100).
[…] la vergogna che provava da bambino, cui non trovava spiegazione né difesa possibile (p. 116).
Figlio di contadini, Stoner ha imparato a subire la normatività naturale fin dall’infanzia, e vi si adegua senza chiedere ragioni e senza ribellarsi. I suoi genitori concepiscono la loro vita come un compito che si iscrive nel ciclo della natura attraverso la necessità del lavoro, della sussistenza e riproduzione materiale, e contano i loro giorni come un ricorrere di gesti rituali e immodificabili: la zappatura, la semina, il raccolto, la nutrizione degli animali. La terra, motivo conduttore del racconto, è la sostanza che simboleggia la natura sia come matrice biologica sia come fondamento, origine e suolo, su cui gli esseri umani poggiano e verso cui per lo più guardano, vivendo a testa bassa senza percepire il cielo, ignorando ogni trascendenza. Stoner è affascinato dal mistero della terra come lo sarà da quello della poesia, e la contempla in uno dei suoi momenti di riflessione sul senso della vita:
He knelt in the field and took a dry clod of earth in his hand. He broke it and watched the grains, dark in the moonlight, crumble and flow through his fingers (p. 109).
Si mise in ginocchio e prese in mano una zolla di terra secca. La spezzò e guardò i granelli, scuri sotto la luce della luna, sbriciolarsi e scorrergli tra le dita (p. 127).
Sometimes he thought of himself as he had been a few years before and was astonished by the memory of that strange figure, brown and passive, as the earth from which it had emerged (p. 15).
Certe volte rifletteva su com’era pochi anni prima, e il ricordo di quella strana figura, bruna e inerte come la terra da cui proveniva, lo lasciava incredulo (p. 24).
Sente che il suo corpo viene dalla terra e sa che alla terra ritornerà, secondo il destino che attende ogni essere umano, e che ha già richiamato il suo maestro Archer Sloane, il suo amico David Masters, sua madre e suo padre:
He thought of the cost exacted, year after year, by the soil; and it remained as it had been – a little more barren, perhaps, a little more frugal of increase. Nothing had changed. Their lives had been expended in cheerless labor, their wills broken, their intelligences numbed. Now they were in the earth to which they had given their lives; and slowly, year by year, the earth would take them. Slowly the damp and rot would infest the pine boxes which held their bodies, and slowly it would touch their flesh, and finally it would consume the last vestiges of their substances. And they would become a meaningless part of that stubborn earth to which they had long ago given themselves (p. 110).
Pensò al prezzo che avevano pagato, anno dopo anno, a quella terra che rimaneva com’era sempre stata, un po’ più arida, forse, e un po’ più parca di frutti. Nulla era cambiato. Le loro vite erano state consumate da quel triste lavoro, le loro volontà spezzate, le loro intelligenze spente. Adesso erano lì, in quella terra a cui avevano donato la vita, e lentamente, anno dopo anno, la terra se li sarebbe presi. Lentamente l’umidità e la putrefazione avrebbero infestato le bare di pino che raccoglievano i loro corpi, e lentamente avrebbero lambito la loro carne, consumando le ultime vestigia della loro sostanza. In ultimo sarebbero diventati una parte insignificante di quella terra ingrata a cui si erano consegnati tanto tempo addietro (p. 127).
Questo fondamento naturalistico conferisce alla virtù di Stoner un riconoscibile tratto stoico. Il tema diviene esplicito negli episodi più tragici del romanzo, in cui il personaggio fa prova di una sovrumana capacità di sopportazione
The blood knowledge of his inheritance, given him by forefathers whose lives were obscure and hard and stoical and whose common ethic was to present to an oppressive world faces that were expressionless and hard and bleak (p. 226).
conservava la coscienza del proprio sangue e dell’eredità lasciatagli dai suoi antenati, con le loro vite oscure, faticose e stoiche, e un’etica che gli imponeva di offrire al mondo tiranno visi sempre inespressivi, rigidi e spenti (p. 253).
Grazie alla sua «stoical endurance» (p. 254), Stoner affronta le tempeste della vita con la stessa ottusa tenacia dei suoi antenati,
his head down, his jaw locked, his mind fixed upon the next step and the next and the next (ib.).
a testa bassa, con la mascella serrata e la mente concentrata solo sul passo seguente e poi su quello dopo ancora (ib.).
Nella sua forza d’animo rivivono gli atavici principi della morale contadina: la pazienza, la resistenza silenziosa attraverso il lavoro, la sopportazione della fatica e della sofferenza fisica, la capacità di rinuncia e la rassegnazione alle sventure più incomprensibili:
His mother regarded her life patiently, as if it were a long moment that she had to endure (p. 2).
Sua madre sopportava la vita con pazienza, come una lunga disgrazia destinata a finire (p. 10).
A questa sapienza ancestrale si oppone idealmente l’attitudine di chi si rivolta invano contro l’ordine delle cose, accumulando frustrazione o risentimento: Edith, la moglie repressa e bovarista, che alterna lunghe fasi di apatia a raptus isterici; e, soprattutto, i due intellettuali handicappati che pretendono di essere risarciti dagli altri esseri umani del danno subito da parte della natura – e che in virtù di questa pretesa diverranno gli antagonisti esemplari di Stoner.
Avremmo torto, tuttavia, a ridurre l’atteggiamento di Stoner a un semplice fatalismo pessimistico, e a interpretarne la vita come una totale sconfitta. Certo, vi sono momenti del romanzo in cui il lettore resta sconcertato dall’inerzia del personaggio; ma allo stesso tempo, proprio dove sembrerebbe soccombere alla passività più disperata, la sua figura trasmette una forma di esemplarità morale, l’espressione di un’indecifrabile virtù, che è più positiva e vitale di quella incarnata dai due genitori, poiché autorizza il soggetto morale a cogliere gli aspetti positivi dell’esistenza per le stesse ragioni per cui gli prescrive la sopportazione del dolore. Il segreto di questa saggezza è il rapporto particolare che istituisce tra necessità e contingenza a proposito della questione che la filosofia classica avrebbe definito dei «beni esterni», e che potremmo chiamare beni di fortuna o di grazia – a patto di non intendere quest’ultimo concetto nell’accezione cristiana di dono divino, ma nel senso pagano di bene concesso arbitrariamente dalla sorte. A questa famiglia di beni appartengono la salute, il vigore e la buona conformazione del corpo, la bellezza fisica, i legami affettivi e le esperienze di comunione come l’amicizia e l’amore: tutte cose che gli esseri umani desiderano fortemente, e senza le quali la loro vita non potrebbe mai dirsi davvero compiuta e felice, ma che per definizione si sottraggono al loro controllo. La possibilità di poterne o meno godere, e per una durata limitata quanto imprevedibile, prescinde dalla buona volontà o dal merito individuale. In questo consiste la loro esteriorità: sono beni che appartengono agli individui solo per ragioni contingenti, nel tempo; sono caduchi, fragili, e un giorno dovranno essere necessariamente perduti.
Un esercizio etico di origine antica, elaborato in particolare dagli stoici per convertire la dipendenza dell’uomo dalla natura in autonomia morale, consiste nell’imparare a rinunciare ai beni esterni al momento opportuno, “lasciandoli andare”: l’atto libero della volontà che riconosce il momento della fine, assecondandolo e anticipandolo con il pensiero, non solo ha l’effetto terapeutico di diminuire l’intensità della sofferenza legata al distacco, ma si afferma come un gesto sovrano. Tuttavia, nell’originale interpretazione che ne offre Stoner, conferendogli una tonalità quasi spinozista, il principio della resistenza alla negatività della vita si trasforma in un omaggio alla sua bellezza, un’arte della gioia incentrata sull’accettazione della contingenza. Così come accusa i colpi negativi della sorte senza protestare, allo stesso modo Stoner approfitta dei suoi momenti propizi, sapendo riconoscere e accogliere il bene esterno quando questo si manifesta e abbandonandosi interamente a esso. Intensi momenti di repentino innamoramento scandiscono in modo discreto ma continuativo la sua vita: per la bellezza della letteratura rivelatagli da Archer Sloane:
«It’s love, Mr. Stoner», Sloane said cheerfully. You are in love. It’s as simple as that» (p. 19).
«È la passione, Mr Stoner», disse allegro Sloane, «la passione che c’è in lei. Nient’altro» (p. 28)
per la bellezza di Edith, che lo spinge per impulso a corteggiarla e sposarla:
He thought her the most beautiful woman he had ever seen, and he said impulsively: «I – I want to know about you» (p. 51).
Trovava che fosse la donna più bella che avesse mai visto, e d’impulso disse: «Io… io… voglio conoscervi» (p. 63)
per la bellezza della figlia neonata dal nome emblematico, Grace:
Even at birth Grace was a beautiful child […]. William fell instantly in love with her (p. 88).
Già alla nascita era bellissima […]. William se ne innamorò all’istante (p. 103).
Malgrado appaia dall’esterno come un uomo apatico, indifferente, privo di entusiasmo, Stoner è un appassionato. E questa passione lo distingue dagli altri personaggi insoddisfatti come Edith e come l’alter ego Lomax, al quale sembra mancare proprio la semplice disponibilità ad accogliere la grazia quando la sorte gli concede di incontrarla. L’arte di saper ricevere il bene che irrompe senza preavviso, e di prendersene amorevolmente cura quasi senza pensarci, per slancio istintivo, lo accompagnerà negli anni, conferendo alla sua esperienza una misteriosa intensità:
It occurred to him that he was nearly sixty years old and that he ought to be beyond the force of such passion, of such love. But he was not beyond it, he knew, and would never be. Beneath the numbness, the indifference, the removal, it was there, intense and steady; it had always been there. In his youth he had given it freely, without thought; he had given it to the knowledge that had been revealed to him – how many years ago? – by Archer Sloane; he had given it to Edith, in those first blind foolish days of his courtship and marriage; and he had given it to Katherine, as if it had never been given before. He had, in odd ways, given it to every moment of his life, and had perhaps given it most fully when he was unaware of his giving. It was a passion neither of the mind nor of the flesh; rather, it was a force that comprehended them both, as if they were but the matter of love, its specific substance. To a woman or to a poem, it said simply: Look! I am alive (p. 259).
pensò che aveva quasi sessant’anni e avrebbe dovuto essersi lasciato alle spalle la forza di una tale passione, di un tale amore. Ma sapeva di non averlo fatto. Sapeva che non l’avrebbe fatto mai. Oltre il torpore, l’indifferenza, la rimozione, quell’amore era ancora lì, solido e intenso. Non se n’era mai andato. In gioventù l’aveva dato liberamente, senza pensarci; l’aveva dato a quella conoscenza che gli era stata rivelata – quanti anni prima? – da Archer Sloane. L’aveva dato a Edith, nei primi, ciechi, folli anni del corteggiamento e del matrimonio. E l’aveva dato a Katherine, come se fosse stata la prima volta. Stranamente, l’aveva dato a ogni momento della sua vita, e forse l’aveva dato più pienamente proprio quando non si rendeva conto di farlo. Non era una passione della mente e nemmeno dello spirito: era piuttosto una forza che comprendeva entrambi, come se non fossero che la materia, la sostanza specifica dell’amore stesso. A una donna o a una poesia, il suo amore diceva semplicemente: Guarda! Sono vivo! (p. 290).
Come rivelerà pienamente la storia d’amore con Katherine Driscoll, la cui fine viene anticipata dai due amanti di comune accordo, la consapevolezza della fragilità dei beni esterni accresce proporzionalmente il loro valore e la forza della passione che suscitano. La mise en abyme di questa massima, attraverso cui si deve interpretare l’intero significato del romanzo, si legge nel sonetto LXXIII di Shakespeare, il testo che Archer Sloane fa commentare in classe agli studenti, e grazie a cui avviene l’immediata conversione di Stoner. È il sonetto che parla della brevità della vita concludendosi con il monito ad amarne la fugace bellezza:
That time of year thou mayst in me behold
When yellow leaves, or none, or few, do hang
Upon those boughs which shake against the cold,
Bare ruin’d choirs where late the sweet birds sang.
In me thou see’st the twilight of such day,
As after sunset fadeth in the west;
Which by and by black night doth take away,
Death’s second self, that seals up all in rest.
In me thou see’st the glowing of such fire
That on the ashes of his youth doth lie,
As the death-bed whereon it must expire
Consumed with that which it was nourished by.
This thou perceivest, which makes thy love more strong,
To love that well which thou must leave ere long.
In me tu vedi quel periodo dell’anno
Quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.
In me tu vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto svanisce all’occidente
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,
ombra di quella vita che tutto confina in pace.
In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua gioventù
come in un letto di morte su cui dovrà spirare,
consunto da ciò che fu il suo nutrimento.
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.
Questo tu vedi, che fa il tuo amore più forte,
a degnamente amare chi presto ti verrà meno.
Per questo, il primo oggetto d’amore di Stoner sarà la letteratura, che insegna ad amare ciò che il più banale dei luoghi comuni definisce con giustezza la “poesia della vita”.
* * *
La scoperta della poesia segna la grande svolta della vita di Stoner, la cui biografia comincia anagraficamente nel 1891 ma simbolicamente nel 1910, l’anno della sua iscrizione all’università, che vale come una seconda e vera nascita. Questa conversione, tuttavia, viene presentata correggendo il tipico schema romantico della vocazione intellettuale, che considera la poesia come un valore incompatibile con la casa paterna. Benché la rottura sia drastica, e benché soffra per l’estraneità che sente crescere tra sé e i suoi genitori, Stoner non smette di amarli e rispettarli, e non rinnegherà mai le sue origini. Del resto, l’iniziativa di iscriversi all’università viene dalla sua famiglia e, almeno in un primo momento, come evidenziano le parole del padre, si presenta in continuità con la loro forma di vita. Studiare Agraria è solo una delle diverse forme di labor di cui il contadino ha bisogno per imparare a trarre frutti migliori dalla terra e a non farsi sopraffare dalla sua aridità:
«I never had no schooling to speak of […]. But now I don’t know. Seems like the land gets drier and harder to work every year […]. County agent says they got new ideas, ways of doing things they teach you at the University» (p. 4).
«Io a scuola è come se non ci fossi mai andato […]. Ma oggi non so. Ogni anno mi sembra che la terra si faccia sempre più secca e dura da lavorare […]. L’ispettore della contea dice che adesso hanno delle idee nuove, dei modi di fare le cose che ti insegnano all’università» (p. 12).
Quando Stoner comunica loro la decisione di cambiare facoltà, i genitori finiscono per accettare la sua scelta con una docilità che sembra sottintendere la comprensione di una ragione occulta. Ma soprattutto, è chiaro come, nel sistema simbolico del romanzo, si dia un’unità profonda tra gli studi di Agraria e quelli di Letteratura, entrambe scienze del colere, il verbo latino da cui deriva l’ambito semantico della cultura, e che non significa solo coltivare ma anche abitare, prendersi cura, venerare. Elevarsi dalla prima alla seconda natura, e dunque anche dalla prima alla seconda cultura, volgersi dalla cura della terra alla cura dell’anima, dalla comprensione delle combinazioni chimiche del suolo a quella delle combinazioni delle parole, sarà per Stoner un’evoluzione quasi spontanea, per quanto sconvolgente dal punto di vista emotivo.
La solidarietà che unisce Natura e Cultura, facendo della seconda tanto l’espressione quanto il luogo di conoscenza e comprensione della prima – al punto che potremmo definire la cultura come una natura in forma riflessiva – spiega perché la concezione degli studi umanistici che si evince dal romanzo non abbia nulla di idealistico. La letteratura, come la conoscenza per Spinoza, fa scoprire un relativo «senso di libertà»; ma non impone di negare o trascendere la dimensione naturale, perché ne rappresenta la continuazione, lo sviluppo coerente. Stoner interpreta le opere letterarie alla luce degli stessi principi del suo naturalismo: la finitezza e caducità della vita, l’appartenenza dell’individuo al tutto, la sua sottomissione alle leggi necessarie del mondo, la valorizzazione della contingenza:
He moved outward from himself into the world which contained him, so that he knew that the poem of Milton’s that he read or the essay of Bacon’s or the drama of Ben Jonson’s changed the world which was its subject, and changed it because of its dependence upon it (p. 26).
usciva da se stesso entrando nel mondo che lo conteneva e comprendeva così che la poesia di Milton, o il saggio di Bacon, o la commedia di Ben Jonson che stava leggendo cambiavano il mondo che avevano per oggetto, e lo cambiavano in virtù della loro dipendenza da esso (p. 35).
Il risolversi della natura in cultura si attua compiutamente nella poesia, dimensione in cui la conoscenza della vita, altrimenti accessibile solo in forma immediata e inconsapevole – come semplice vivere – si dà in una modalità mediata e discorsiva, per mezzo del linguaggio.
È significativo che solo dopo la conversione alla letteratura Stoner cominci a guardarsi allo specchio, in senso tanto reale quanto figurato, scoprendosi come essere autocosciente:
He became conscious of himself in a way that he had not done before. Sometimes he looked at himself in a mirror (p. 13).
Acquistò una consapevolezza di sé che non aveva mai avuto prima. A volte si osservava allo specchio (p. 22).
Da questo momento, la sua esistenza sarà scandita dall’alternarsi di due forme di rapporto a sé: il quotidiano lasciarsi vivere, l’abbandonarsi all’esperienza e al lasciar-essere, accettando la contingenza e scegliendo per amore immediato dei suoi beni, senza progetti e piani di vita (le decisioni di Stoner sono sempre prese per istinto e diventano consapevoli solo a posteriori, quando qualcuno, come ad esempio Archer Sloane, gliene chiede conto); e i rari ma intensi momenti di riflessione, in cui la sua coscienza diventa capace come di staccarsi dal corpo, per guardarsi in modo impersonale, con occhi non propri, analizzandosi dall’esterno. Questi momenti, come nella scena metafisica della notte innevata, sono esercizi di straniamento spirituale che prefigurano il momento della morte, in cui l’io tornerà a fondersi con la totalità della natura; sollevano il problema del senso di ogni esistenza finita, la questione etica della vita buona:
He found himself wondering if his life were worth the living; if it had never been (p. 184).
Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata (p. 207).
La letteratura, insomma, è una forma, anzi, la forma più alta di filosofia morale. Essa ha per oggetto la condizione umana, su cui riflette attraverso la scoperta e l’analisi dei suoi topoi – nascere, generare, lavorare, amare, ammalarsi –, tutti iscritti nell’ordine naturale e dominati dall’essere-per-la-morte. Alla luce di questi esistenziali, vasti luoghi comuni in cui le singole vite individuali si incontrano e riconoscono le loro leggi universali, le caratteristiche contingenti di ogni esistenza, e i beni specifici di cui essa può godere, si disvelano nel loro vero valore, nella loro potenziale bellezza. In questo senso, la poesia non è altro che una domanda incessante sul significato della vita. Ecco perché Archer Sloane – dopo aver incalzato l’allievo sul significato del sonetto di Shakespeare –
«What does he say to you, Mr. Stoner? What does his sonnet mean?» (p. 12).
«Cosa le sta dicendo, Mr Stoner? Cosa significa questo sonetto?» (p. 21).
si dimostra sorprendentemente soddisfatto della non-risposta di Stoner, che è riuscito soltanto a balbettare:
«It means […]. It means», he said again, and could not finish what he had begun to say. Sloane looked at him curiously. Then he nodded abruptly and said: «Class is dismissed» (ib.).
«Significa» […] «Significa», ripeté, e non riuscì a terminare la frase. Sloane lo guardò incuriosito. Poi annuì bruscamente e disse: «L’ora è finita» (ib.).
Evidentemente, l’allievo ha capito l’essenziale di ciò che doveva capire; ha smesso di leggere le parole impresse sulle pagine senza comprendere che in esse è in gioco il senso della vita umana.
Non stupisce il fatto che, in questa concezione della letteratura così carica di valenze esistenziali, la tradizione svolga un ruolo decisivo. Come intuiamo dalla scelta dei suoi argomenti di ricerca, in cui si può riconoscere un omaggio all’opera e alla figura di Ernst Robert Curtius, Stoner è un antimoderno, e ai suoi occhi la storia letteraria si presenta come una filiazione senza fratture della tradizione classica. La poesia latina, cui va la sua predilezione perché vi ritrova, espressa in una «graceful manner», la sua stessa intuizione della vita, lo porta ad amare il Rinascimento e a concepirlo in continuità con il Medioevo – il Medioevo pagano, fedele alla celebrazione dell’immanenza propria dei latini, e opposto al Medioevo cristiano, oppresso dalla trascendenza, diviso tra il terrore della morte e il desiderio della vita eterna.
Soprattutto, nel “culto” della tradizione Stoner scopre l’ethos più congeniale. Da lui praticata e difesa con accanimento, la filologia non è erudizione fine a se stessa, una semplice tecnica di accertamento positivistico del dato, ma una pratica etica che pone un argine all’arbitrio, all’incompetenza e alla presunzione individuali, in nome dell’incontrovertibile obiettività del sapere: su questo conflitto tra il rispetto filologico minimo per lo spirito oggettivo – titoli delle opere, date di composizione e pubblicazione, elementi linguistici e storici – e la prepotenza ermeneutica di chi violenta l’opera per interpretarne a piacimento il senso, si incentrerà l’interrogazione dello studente Charles Walker per l’ammissione al dottorato. Dal punto di vista morale, la pratica della filologia svolge nell’esistenza quotidiana di Stoner un ruolo comparabile a quello degli esercizi spirituali degli antichi: ridimensiona il finito che si ritiene impropriamente infinito, riconduce l’io all’interno di un tutto più grande e più vero – anche da questo punto di vista Natura e Cultura finiscono per assimilarsi – dissolve le pretese narcisistiche ed egocentriche dell’individuo, insegnandogli a riconoscersi parte di una normatività superiore.
La filologia non mortifica il coinvolgimento esistenziale del soggetto, perché il suo fine resta sempre quell’incontro con il significato che si traduce in passione – come del resto ricorda la stessa origine etimologica del termine, “amore per la parola”. Solo, questo amore non può darsi al di fuori della mediazione storica, perché, lungi dall’essere la creazione o l’interpretazione ex nihilo di singoli, geniali, anarchici io, il senso è l’articolazione di significati universali di cui gli individui si appropriano in una dimensione a un tempo oggettiva e intersoggettiva, all’interno di leggi e tradizioni. Stoner ritrova la dimensione naturale della legge nella sua concezione della grammatica, cui dedicherà il suo seminario più riuscito. Erigendo l’antica arte del trivio a disciplina-guida dei saperi umanistici, ingaggiando una polemica apertamente antimoderna, egli esalta la natura normativa del linguaggio. Ogni espressione e articolazione di significato è resa possibile da un insieme di regole universali e necessarie, una logica senza la quale non si darebbe nessuna cultura e, di conseguenza, nessuna poesia:
He felt the logic of grammar, and he thought he perceived how it spread out from itself, permeating the language and supporting human thought. In the simple compositional exercises he made for his students he saw the potentialities of prose and its beauties, and he looked forward to animating his students with the sense of what he perceived (p. 26).
Percepiva la logica della grammatica e gli sembrava di cogliere il modo in cui scaturisce da se stessa, permeando il linguaggio e sostenendo il pensiero umano. Nei semplici esercizi di composizione che preparava per gli studenti coglieva le potenzialità della prosa e la sua bellezza, e non vedeva l’ora di trasmettere ai suoi allievi il senso di quelle scoperte (p. 35).
A loro volta, poesia e grammatica non sono concepibili senza la tradizione, che garantisce la trasmissione e conservazione della lingua e dei significati poetici, imponendo allo studioso un compito modesto ma cruciale: coltivare l’humanitas prendendosi cura di ciò che gli è stato affidato, con scrupolo e competenza, e soprattutto con amore, così da ritrasmetterlo e farlo amare a chi verrà dopo di lui. In altre parole, essere un bravo filologo e ancora prima un bravo insegnante, ruolo in cui Stoner riconoscerà la propria vocazione in senso weberiano, una forma di ascesi laica, un lavoro con una dignità del tutto indipendente dalla vita privata e capace di riscattarne le meschinità e i fallimenti:
He felt himself at last beginning to be a teacher, which was simply a man to whom his book is true, to whom is given a dignity of art that has little to do with his foolishness or weakness or inadequacy as a man (p. 115).
Sentiva che finalmente cominciava a essere un insegnante, ovvero un uomo che semplicemente dice quel che sa, traendo dalla sua professione una dignità che ha poco a che fare con la follia, o la debolezza, o l’inadeguatezza dei suoi comportamenti privati (p. 133).
Intorno a questa concezione della letteratura e del lavoro si polarizzano il conflitto con Walker e l’amore con Katherine, entrambi nati, significativamente, durante il seminario sulla grammatica, e incentrati, come le lezioni di Sloane, sull’interpretazione della poesia di Shakespeare. Katherine, uditrice libera, fa proprio con convinzione il metodo di Stoner:
Her concentration was upon Shakespeare’s use of the Donatan tradition, a tradition that had persisted in the grammars and handbooks of the Middle Ages (p. 142).
si era concentrata sull’uso fatto da Shakespeare della tradizione donatiana che persisteva nelle grammatiche e nei manuali del Medioevo (p. 161);
e questa affinità del suo metodo ermeneutico, ribadendo l’equazione tra vita, filosofia e poesia, si converte anche per lei in un ethos, facendo sì che persino il discorso sulla fine dell’amore con Stoner si declini secondo le regole grammaticali, nel rispetto della specifica temporalità di ogni passione:
They revealed that knowledge by grammatical usage: they progressed from the perfect – «We have been happy, haven’t we?» – to the past – «We were happy – happier then anyone, I think» – and at last came to the necessity of discourse (p. 220).
Coniugarono quella coscienza con la grammatica, passando dal passato prossimo – «Siamo stati felici, vero?» – all’imperfetto – «Eravamo felici, più felici di chiunque altro». Fino all’inevitabile futuro (p. 247).
Walker, al contrario, entra in scena svogliato, in ritardo, interrompendo la lezione e contestando i presupposti fondamentali dell’insegnamento del professore:
«Sir», Walker said, «pardon me, but I don’t understand. What can» – he paused and let his mouth curl around the word – «grammar have to do with poetry? Fundamentally, I mean. Real poetry» (p. 138).
«Professore», disse Walker, «mi scusi, ma non capisco. Cosa può avere a che fare la…», fece una pausa e arricciò la bocca intorno alla parola, «grammatica… con la poesia? Nella sua essenza, intendo. Con la vera poesia» (p. 157).
La disputa letteraria che lo oppone in apparenza a Katherine, ma in realtà a Stoner, va allora letta come un dramma morale in cui si scontrano due visioni antagonistiche dello studio della letteratura e quindi anche dell’essere al mondo. Il contributo di Walker al seminario fornisce il pretesto per esaltare la visione romantica della creazione artistica, che concepisce la poesia come opera dell’individualità eccezionale, del
genius natural and supreme to rule and mundane law (p. 146).
genio innato che trascendeva le regole e le leggi mondane (p. 165).
Unlike lesser poets, Shakespeare was not born to blush unseen and waste his sweetness on the desert air; partaking of that mysterious source to whence all poets go for their sustenance, what need had the immortal bard of such stultifying rules as are to be found in a mere grammar? […] Genius, unique and a law unto itself, needs not the support of such a “tradition” as has been described to us […] (ib.).
A differenza di altri poeti minori, Shakespeare non era nato per arrossire nell’ombra e disperdere la sua dolcezza all’aria del deserto. Consustanziale a quella misteriosa fonte da cui tutti i poeti traggono il loro sostentamento, che bisogno aveva il bardo immortale delle regole fuorvianti contenute in una semplice grammatica? […] Il genio, che è unico ed è legge a se stesso, non ha bisogno del sostegno di una “tradizione” come quella che ci è stata descritta (p. 166).
Anche in questo caso, il metodo dell’interpretazione letteraria contiene implicitamente un’etica, che, opposta a quella del filologo, autorizza l’individuo a credersi unico, speciale, libero e scorporato dal tutto: come l’eterno ribelle, che si pensa sempre come un’eccezione alla regola, come l’ignorante che spaccia la sua incompetenza per garanzia di genialità, come l’infelice che pretende di essere risarcito della disgrazia naturale ottenendo uno sconto rispetto alle regole pedagogiche rispettate da tutti. Per questo Stoner si scaglia contro Walker con una severità che può sembrare eccessiva. Walker è l’impostore, il nemico. Non deve entrare all’università perché non potrà mai essere un bravo insegnante e un uomo saggio: perché non sa ciò di cui parla, e perché, non riconoscendo l’esistenza di alcuna norma superiore all’io, rifiuta i principi della grammatica della vita.
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Oltre al corpo grottesco di Walker, il romanzo concede al romanticismo anche un volto affabile e positivo, nel personaggio di David Masters, che si arruola durante la prima guerra mondiale per un moto di nichilismo volontaristico. Stoner ama e ammira l’amico, ma si sente estremamente distante dal suo modo di essere: nella sua morte insensata egli vedrà l’ennesimo gesto gratuito di un soggetto che pretende di darsi la legge da solo, che invece di accettare ed amare le leggi del mondo pretende di affermarsi senza e contro di esse.
Questo rifiuto intransigente dell’individualismo, e di tutto ciò che la rivolta romantica comporta anche a livello politico e sociale, rappresenta probabilmente per noi l’aspetto più disturbante. Insieme all’idea di una soggettività libera, sovrana, creatrice, Stoner finisce infatti per ripudiare l’idea stessa di critica. Agli studenti che partono volontari in guerra per vivere eroicamente l’“Evento” e trovare un senso fuori dall’esistenza ordinaria, egli preferisce lo studio in biblioteca e la sobria fedeltà all’istituzione. Non è l’individuo a cambiare il corso del mondo, ma è il corso del mondo a trasformare l’individuo, plasmandolo attraverso la normatività della prima e della seconda natura:
But before William Stoner the future lay bright and certain and unchanging. He saw it, not as a flux of event and change and potentiality, but as a territory ahead that awaited his exploration. He saw it as the great University library, to which new wings might be built, to which new books might be added and from which old ones might be withdrawn, while its true nature remained essentially unchanged. He saw the future in the institution to which he had committed himself and which he so imperfectly understood; he conceived himself changing in that future, but he saw the future itself as the instrument of change rather than its object (p. 24).
Per William Stoner, invece, il futuro era una certezza fulgida e immutabile. Ai suoi occhi non appariva come un flusso di eventi, mutazioni e potenzialità, ma come un territorio che attendeva solo di essere esplorato. Gli sembrava simile alla grande biblioteca dell’università, che poteva essere arricchita dalla costruzione di nuove ali, cui potevano aggiungersi nuovi libri o esserne tolti di vecchi, ma che manteneva essenzialmente invariata la sua vera natura. Immaginava il suo futuro solo nell’istituzione a cui si era votato, e che comprendeva in modo tanto imperfetto. Non escludeva di poter cambiare in quel futuro, ma considerava il futuro stesso come lo strumento, piuttosto che l’obiettivo, del cambiamento (p. 33).
Quest’etica della trasformazione individuale, del lento e umile lavoro sul sé, che si affida al lasciar-essere e alla sicurezza garantita dalle istituzioni (il motivo, parallelo a quello della terra, è associato all’immagine del colonnato dell’università) può essere senza dubbio, e a buon diritto, accusata di conservatorismo. È un’etica intenzionalmente e risolutamente disancorata dalla storia e dalla politica: concepisce l’individuo come membro del genere umano, non di una comunità storica; non conosce altra dimensione che quella quotidiana, e restringe la sua cerchia intersoggettiva alla sfera degli affetti intimi e familiari. Stoner ignora la Società, la grande Storia, l’appartenenza a una polis; è indifferente a ogni lotta per il riconoscimento, tanto nella forma della carriera universitaria, quanto in quella della gloria letteraria o militare. La sua vita “infame”, senza nome e senza memoria, riassunta in poche righe nella prima pagina del romanzo come sulla lapide di un cimitero o in una scheda d’archivio, non si allontana mai dalla dimensione ordinaria, di cui ripercorre senza alcuna originalità e senza alcun eroismo i topoi accessibili a chiunque: il lavoro, l’amicizia, il matrimonio, la paternità, persino l’adulterio, che, come gli ricorda ripetutamente sua moglie, non è altro che un luogo comune, e per questo, agli occhi di lei, «nothing at all».
Stoner è un uomo qualunque, un Everyman (non a caso, l’unica opera letteraria medievale, estranea al canone romantico, di cui persino Walker ha conoscenza): vive come vivono quasi tutti, ordinariamente, e muore come muoiono quasi tutti, non sul campo di battaglia ma in un letto, di malattia e di vecchiaia. Al momento della sua morte, narrata come in controcanto a quella di Ivan Il’ič, capiamo che, malgrado e forse proprio per la sua banalità, questa vita è stata profondamente autentica, e che si è giustificata. Stoner ha saputo accettarla nella sua contingenza e ha saputo percorrerne tutti i luoghi comuni, persino i più squallidi, come se fossero davvero suoi:
It had not occurred to him how he must appear to an outsider, to the world. For a moment, he saw himself as he must thus appear […]. He had a glimpse of a figure that flitted through smoking-room anecdotes, and through the pages of cheap fiction – a pitiable fellow going into his middle age, misunderstood by his wife, seeking to renew his youth, taking up with a girl years younger than himself, awkwardly and apishly reaching for the youth he could not have, a fatuous, garishly got-up clown at whom the world laughed out of discomfort, pity, and contempt. He looked at this figure so closely as he could; but the longer he looked, the less familiar it became. It was not himself that he saw, and he knew suddenly that it was no one (p. 208).
Stoner non aveva mai pensato a come potesse apparire agli occhi di un estraneo, o del mondo. Per un momento s’immaginò dal di fuori: quel che vide in parte corrispondeva alle parole di Edith. Scorse una figura in volo tra i pettegolezzi di una sala fumatori e le pagine di un romanzo d’appendice, un patetico individuo prossimo alla mezza età, incompreso dalla moglie, che nella speranza di ritrovare l’energia di un tempo frequentava una ragazza più fresca di lui, scimmiottando goffamente la giovinezza che non poteva più avere. Un fatuo, chiassoso pagliaccio di cui il mondo rideva con imbarazzo, pietà e disgusto. Contemplò quella figura, più da vicino possibile, ma più la guardava, meno gli sembrava familiare. Non era se stesso che vedeva, e all’improvviso capì che non vedeva nessuno (p. 233).
In questa affermazione del valore dell’essere se stessi contro l’opinione, il “man”, la saggezza di Stoner sembra trovare un accento esistenzialistico propriamente moderno. Ma questo accento convive con il naturalismo della tradizione classica, facendo sì che l’ideale dell’autenticità si svuoti non solo dell’ambizione eroica che le attribuiscono le più importanti versioni novecentesche, ma anche dell’esigenza espressivistica che le conferiscono le sue origini romantiche, in nome di quello che potremmo definire un “esistenzialismo pagano”. Per vivere una vita buona, l’individuo non deve esprimere la propria identità, creare, lasciare un’opera, un gesto speciale, una traccia personale del proprio unico e irripetibile passaggio nel mondo: la pretesa che ogni io goda di una singolarità irriducibile, di una diversità da preservare e difendere come un oggetto prezioso, è una concezione erronea della natura, un falso mito moderno. Mentre nell’esperienza concreta della vita l’individualità afferma il valore della propria specificità e contingenza, con quella della morte si dissolve nell’ordine universale, rientra nel ciclo della terra, fondendosi nella totalità naturale del genere umano e dei viventi. Proprio come il contenuto del libro, del suo unico libro, che Stoner sfoglia nell’ultimo momento:
[…] he knew, a small part of him that he could not deny was there, and would be there. He opened the book; and as he did so it became not his own (p. 288).
Sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta. Aprì il libro, e mentre lo faceva, il libro smise di essere il suo (p. 322).