Ritratto di John Williams. Parte prima

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Pubblichiamo l’unico testo in circolazione sulla vita di John Edward Williams, apparso sul «Denver Westword» il 3 novembre 2010. 

 

Era il 1962 quando Joanne Greenberg iniziò a interessarsi a uno scrittore di nome John Williams. In quei giorni, tutto quel che offriva la scena letteraria di Denver poteva (e spesso accadeva) essere contenuto comodamente all’interno di una stanza – un esiguo gruppo di autori e di operatori culturali che si incontravano di continuo a cocktail, letture, firmacopie e altri eventi.
Greenberg aveva trent’anni. Aveva appena pubblicato il suo primo romanzo, The King’s Persons, e stava lavorando al secondo, I never promised you a rose garden, che sarebbe poi stato un formidabile successo commerciale e di critica. Williams era di dieci anni più vecchio. Professore di Letteratura Inglese all’Università di Denver, era una presenza sorridente e raffinata ai party: un drink in una mano, la sigaretta nell’altra.
«Williams? Scrive western», qualcuno le disse.
Greenberg non conosceva nessuno che scrivesse western e Williams non sembrava qualcuno che ne potesse scrivere. Era basso ed elegante, portava la barba curata e aveva un’espressione malinconica, ricorda Greenberg. Indossava sempre una camicia bianca, un blazer, un ascot al posto della cravatta e  ogni tanto una fascia da smoking di colore rosso. A parte le spie e i diplomatici, chi avrebbe mai indossato una fascia rossa?
Quel volto solcato da rughe profonde ne aveva viste di cose. Dopo che i due presero parte a un paio di convegni insieme, a Greenberg fu chiaro che John Williams era un uomo serio – serio nel suo lavoro e in letteratura in generale.  Quando seppe che stava per uscire un suo nuovo romanzo, decise di procurarsi una copia.
Il libro era Stoner: seduta in macchina in un parcheggio pubblico, Greenberg  aprì il suo acquisto con una certa trepidazione. E se non fosse stato buono?

Non era un western. Era la storia di un oscuro professore universitario, un insegnante  la cui vita e carriera sono immerse nella delusione e nel fallimento. Greenberg scivolò dentro i primi due paragrafi e arrivò in breve alla fine. «Alla quarta frase seppi di essere in buone mani», afferma adesso. «Ero seduta lì e venivo risucchiata via».

I colleghi di Stoner, che da vivo non l’avevano mai stimato granché, oggi ne parlano raramente; per i più vecchi il suo nome è monito della fine che li attende tutti, per i più giovani è soltanto un suono, che non evoca alcun passato…
 
E mentre veniva trascinata in quest’opera sorprendentemente avvincente,  Greenberg realizzò che era così che lei avrebbe voluto scrivere – limpida come un ruscello di montagna, priva di trucchi e ostentazioni, quasi senza parole.  Era quel tipo di risultato apparentemente semplice che richiede un talento eccezionale, insieme a cospicue riserve di disciplina e amore. «Scriveva come un perfetto sciatore, senza un movimento di troppo».  «Era una scrittura senza ego. Il che non vuol dire priva di personalità».
La volta successiva in cui incontrò Williams, Greenberg era entusiasta di Stoner. «Il libro è meraviglioso», disse.
«Lo credo anch’io», rispose Williams; e poi, con quella tipica modestia, iniziò a parlare d’altro.

Williams pubblicò tre capolavori di narrativa nell’arco di dodici anni, tutti erroneamaente etichettati come “romanzi storici”, ma enormemente diversi l’uno dall’altro. Ognuno di questi fu accolto con vendite scarse e furono presto messi fuori catalogo – anche se l’ultimo, Augustus, vinse il National Book Award: l’unica opera di un cittadino del Colorado che abbia mai vinto il premio.

A volte la gente confonde Williams con lo scrittore afro-americano John A. Williams, o addirittura con il compositore della colonna sonora di Guerre Stellari. Eppure, una volta ogni qualche anno c’è un critico astuto e influente che riscopre il John Williams di Denver, con lo stesso shock che ebbe Greenberg seduta nel sedile posteriore della sua macchina nel 1965.
«Perché questo libro non è famoso?», chiese C.P. Snow scrivendo di Stoner quando, nel 1973, finalmente trovò un editore inglese.
«John è quasi famoso per non essere stato famoso», si lamentò nel 1986 il suo compare Dan Wakefield. «È un Hemingway senza spacconate, un Fizgerald senza moda, un Faulkner privato del suo sfarzo».

In un articolo sul New York Times del 2007, Morris Dickstein definì Stoner «qualcosa di più raro di un grande romanzo­: è un romanzo perfetto, così ben raccontato e scritto con grazia, così profondamente commovente, da togliere il fiato». Ci sono stati altri entusiasti che hanno riempito di complimenti Butcher’s Crossing, definito il miglior western mai scritto e il primo anti-western, e Augustus, un meraviglioso viaggio attraverso l’ascesa della Roma imperiale.
Sedici anni dopo la sua morte per enfisema all’età di 71 anni, Williams ha iniziato a essere oggetto di culto nei college, promosso in parte da suoi ex allievi del corso di scrittura creativa, adesso insegnanti in altri programmi di dottorato. E la sua opera sembra ora essere sul punto di ricevere un riconoscimento più ampio. Negli ultimi anni, le sue tre opere maggiori sono state ripubblicate in belle edizioni tascabili. Stoner è apparso sul «Time» all’inizio di quest’anno in una lista di libri preferiti da Tom Hanks.  E la casa di produzione Focus Features ha annunciato che la versione cinematografica di Butcher’s Crossing è adesso in via di sviluppo con la regia di Sam Mendes e la sceneggiatura di Joe Penhall.

D’altra parte l’uomo dietro l’opera rimane un enigma. A Williams non piaceva parlare di sé. Chi lo considerava un buon amico aveva saputo ben poco della sua esperienza nella seconda guerra mondiale, per esempio, che lo ossessionò per anni, o delle sue diffcoltà nella vita privata. Non si lamentava mai del “processo” creativo, era restio di fronte alle domande su “dove gli scrittori prendono ispirazione”, e di rado parlava di quel romanzo tentacolare sulla guerra e sulle arti figurative che iniziò a scrivere poco tempo dopo Augustus, un progetto che rimase incompiuto quando morì vent’anni dopo.
«Aveva un lato privato che lui mantenne molto privato», dice Robert Richardson, l’acclamato biografo di Thoreau che insegnò insieme a Williams alla Denver University per quasi trent’anni, «e la cosa non interferiva affatto con il suo senso dell’amicizia e con il suo rendersi disponibile. Non perse mai tempo a compatirsi, anche quando se ne andava in giro con una bombola di ossigeno. Era a suo agio con se stesso e con il luogo in cui viveva».
Certo un romanziere della statura di Williams non passa inosservato a Denver, non può non lasciare traccia dietro di sé. Differentemente dal Prof. Stoner, lo scrittore ebbe un forte impatto sui colleghi, sugli amici e sugli studenti, i quali gli diedero fiducia tanto da fare del corso di scrittura creativa della Denver University uno dei migliori di tutto il paese. Si ricordano di un  uomo affascinante, irascibile, forte bevitore e artista appassionato che teneva di più ai propri standard di precisione  che alle aspettative del pubblico. Artigiano meticoloso, ci ha lasciato anche una collezione di lettere molto eloquente, appunti e bozze, tutti accuratamente conservati nella biblioteca dell’Università, (anche se, curiosamente, non nell’Università in cui insegnò per trent’anni).
Le memorie e le carte restituiscono un po’ della storia di Williams – dura e inaspettata,  e totalmente priva di apologie.
«Era un ragazzo tranquillo», dichiara Nancy Williams, la sua quarta e ultima moglie, che è rimasta con lui per quasi 35 anni. «Detestava i sentimentalismi  e le edulcorazioni.  Pensava alla scrittura come a un lavoro vero e proprio. Diceva che se non fosse stato uno scrittore sarebbe diventato un idraulico».
Ma uno di quegli idraulici fenomenali.

Ogni volta che Williams scopriva un romanzo che gli piaceva, diceva che quello scrittore era un “professionista” – il suo più altisonante riconoscimento letterario. Ma conservava un affetto ancora maggiore per chi riteneva essere sincero e semplice: una persona così non ha “sfaccettature”, diceva.
E Williams era cresciuto tra gente semplice. Era nato nel 1922 a Clarksville, in Texas, ed era cresciuto a Wichita Falls e nei suoi dintorni. I nonni erano contadini; i genitori quasi fallirono durante la Grande Depressione, più volte sull’orlo del pignoramento, fino a quando George Clinton Williams trovò un lavoro stabile come usciere di un ufficio postale. John aveva otto o nove anni quando seppe che George era di fatto il suo patrigno. Gli avevano detto che il padre naturale era stato ucciso da un autostoppista quando John era ancora molto piccolo.  Al ginnasio divenne un lettore vorace, lavorava in una libreria e sognava di diventare uno scrittore. Il complimento di un insegnante per un elaborato che scrisse sull’attore Ronald Colman pose il sigillo alla sua ambizione. «Fu uno dei primi complimenti che avessi mai ricevuto in vita mia su qualcosa che avessi mai fatto e dissi: “ Mio dio, ho trovato la mia vocazione”».
Dopo il liceo, Williams si iscrisse in un college di Wichita Falls, e fu subito bocciato al primo corso di Inglese. Era troppo inquieto per studiare e troppo curioso di vedere il mondo. Aveva una voce profonda e calda, e presto trovò lavoro come annunciatore radio. Si sposò a diciannove anni e subito dopo entrò nell’Aviazione Militare.
Nel 1942 fu arruolato e si imbarcò per l’India, dove svolgeva mansioni di controllore radio durante le missioni che sorvolavano l’Himalaya per sostenere le truppe che si trovavano nella giungla birmana: “sorvola la collinetta”, così si diceva. Quando finì, Williams di rado menzionava i due anni e mezzo trascorsi nel teatro Indo-Cino-Birmano, a parte nel ricordare che passava la maggiorparte del suo tedioso tempo libero a scrivere e riscrivere il suo primo romanzo, Nothing but the night, un cupo studio psicologico di un giovane dandy in difficoltà, a cui successivamente avrebbe rinunciato. Un giorno ricevette una di quelle classiche lettere che arrivavano al fronte, in cui fu piantato dalla ragazza che aveva sposato in fretta e furia prima di arruolarsi.
Decenni dopo, alla domanda se avesse mai assistitio a un combattimento, Williams ammise che «eravamo presi di mira, ogni tanto», poi di colpo cambiò argomento. Ma sua moglie insiste nel ribadire che la guerra penetrò dentro di lui più a fondo di quanto riuscisse a riconoscere.
Quasi mille uomini e 600 aerei cargo furono abbattuti nell’attraversamento dell’Himalaya, a causa di fuoco nemico, cattive condizioni climatiche e pericolose piste di atterraggio improvvisate fuori dalla giungla. Williams partecipò a dodici missioni aeree. Prese la malaria e vide i devastanti effetti della carestia in India. Una volta, mentre era insieme a una squadra di volontari mandati a recuperare le piastrine dai corpi ormai gonfi di un equipaggio precipitato, si ridusse a mangiare scimime allo spiedo. E mentre era su un C-47 non equipaggiato per i combattimenti, raccontò più tardi alla moglie, fu colpito volando basso sopra le cime degli alberi in Birmania.
«Rimase convinto che fosse stato un mortaio giapponese a colpirli», dice Nancy Williams. «Gli alberi attutirono la loro caduta. Si svegliò fuori dall’aereo con due o tre costole rotte. I cinque ragazzi che erano nella parte posteriore dell’aereo rimasero uccisi, e i tre che erano davanti sopravvissero. Avevano con loro una bussola, riuscirono a trovare la Strada di Birmania e lasciarono la giungla a piedi».
«John soffrì per anni di una pesante sindrome di colpa del sopravvissuto. Iniziammo a vivere insieme quindici anni dopo la fine della guerra e lui continuava ad avere gli incubi. E a sentirsi in colpa. E ad avere la malaria. La guerra non lo lasciò mai».
Williams non mise mai in discussione la necessità della guerra, «ma in fondo credo che la seconda guerra abbia brutalizzato questo paese», dichiarò in un’intervista del 1981, «ci si è quasi abituati all’idea che la gente venga ammazzata».
Nel 1945 Williams tornò alla vita civile. Trascorse qualche tempo con la sua famiglia, che si era trasferita in California, poi finì a Key West, dove partecipò al lancio di una nuova radio. Continuò ad armeggiare con il suo romanzo, inviando bozze a editor di New York, che lo definirono un racconto pomposo e prolisso.  Deluso ma ostinato, Williams inviò il manoscritto ad Alan Swallow.
Fu una mossa che cambiò la sua vita. Originario del Wyoming, Swallow aveva fondato una piccola casa editrice a Denver dedita a scoprire nuovi scrittori seri rifiutati dal mainstream. In quel momento era anche impegnato nella creazione di un programma di dottorato di scrittura creativa all’Università di Denver, che sarebbe stato il secondo di quel genere in tutti gli Stati Uniti.
Swallow trovò Nothing but the night piuttosto malinconico e «in qualche modo troppo limato», ma non così terribile per essere un primo romanzo. Disse a Williams che lo avrebbe pubblicato sotto il suo marchio, anche se sarebbe stato sicuramente un progetto in perdita. «Credo tu sia uno di quegli scrittori che ha bisogno di buttare via due o tre romanzi prima che le cose inizino a funzionare», rispose allo scrittore in fibrillazione.
Il libro fu pubblicato nel 1948 e sparì in breve. Swallow accettò di pubblicare anche un volume di poesie di Williams. E più importante ancora, lo persuase a trasferirsi a Denver e a riprendere i suoi studi nella loro Università. Si laureò nel 1949 e conseguì la specializzazione l’anno successivo, lavorando con Swallow in classe e svolgendo diverse mansioni in casa editrice, tra cui la composizione dei caratteri tipografici.  Ci fu un secondo matrimonio, che svanì subito. Si era sposato troppo presto dopo l’Esercito, dichiarò anni dopo. Williams si addottorò presso l’Università del Missouri. La sua dissertazione, sul poeta elisabettiano e drammaturgo Fulke Greville, se la passò meglio del suo secondo romanzo, che scrisse in quel periodo su un bohémien americano in Messico, respinto da ventidue editori. «Semplicemente troppo lungo e troppo pretenzioso», sentenziò un editor.  Il Dott. Williams ritirò il suo attestato nel 1954 e tornò in Colorado, dove accettò l’unico lavoro di insegnamento che gli era stato offerto. Swallow aveva lasciato l’Università per dedicarsi all’editoria e Williams gli successe come direttore del nascente programma di scrittura creativa.  In quel periodo l’Università di Denver era un’istituzione piccola, isolata, chiaramente dotata di poche qualità; un oscuro luogo isolato nelle correnti accademiche. Williams tenne un numero sconcertante di corsi per matricole e laureandi, ebbe un terzo matrimonio, che sopravvisse per tutti gli anni Sessanta e che produsse tre figli, ed ebbe poco tempo per scrivere. Ma era comunque determinato, come Swallow, ad accettare quei presunti ostacoli del lavorare lontano dall’establishment editoriale della costa orientale e plasmarli a suo vantaggio.

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